25 n.s./2019
IL MITO DELL’EMPATIA. PROSPETTIVE CRITICHE

a cura di

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

Adversus empathicos! Quasi un dialogo in tre sceneFabrizio Desideri // prefazioneFabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri // saggi / Ulterior…mente: l’empatia e il mito della prospettiva internalista Silvano Tagliagambe / Empatia, mindreading e introspezione Massimo Marraffa / La critica dell’empatia in Walter Benjamin. Acedia, merce, dominioMassimo Palma / Empatia della forma espressiva. Il modello anaforico da Brandom a BühlerFelice Masi / Oltre lo “specchio” e la “fusione”: il fondamento dell’Einfühlung husserliana nel Leib Andrea Lanza / L’igienico intervallo tra Io e Tu. Umfassung contro Empatia nel pensiero di Martin BuberMassimiliano De Villa / Vademecum di un consigliori. Ai confini del concetto di empatiaMauro La Forgia / Empatia ed ecfrasia. Osservazioni dalla psicoterapiaAmedeo Ruberto / L’occhio vivente. Empatia e biologiaAntonino Trizzino / Estetica dello “sfioramento”. O dell’empatia e dell’ontogenesiLuca Pinzolo // articoli di “atque” 1990-2019 – per autore

 

 

 

[Anteprima delle prime pagine di ogni articolo del fascicolo.]

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Questo fascicolo di Atque intende sottrarsi alla retorica che connota oggi il discorso sull’empatia. Anzitutto ricordando che tale nozione e la discussione intorno al problema che implica è relativamente recente (se per recente si possono intendere circa centotrenta-centoquaranta anni). Si potrebbe addirittura sostenere al riguardo che l’empatia è in sostanza un’invenzione moderna se non addirittura tardo-moderna, nella quale non può essere trascurato il ruolo decisivo che vi svolge la traduzione del termine tedesco Einfühlung: da Einfühlung (il cui primo uso è fatto risalire a Herder) a empathy (a opera di Edward Titchener, un’allievo inglese di Wilhelm Wundt) fino all’italiano empatia. I dizionari a questo punto riconducono il lemma alla sua origine greca: empatia non sarebbe altro che il calco di empatheia. Mai come in questo caso, però, la somiglianza fonetica cela profonde differenze storico-semantiche che meritano di essere indagate.

 

Si potrebbe sostenere al riguardo che la stessa storia della nozione di empatia, nel quadro storico dei differenti significati che investono le sue diverse forme linguistiche, presenta almeno due fondamentali accezioni: quella tardo-antica e quella moderna e ultramoderna (corrente).

Nell’accezione tardo-ellenistica, “empatia” indica un movimento dell’anima dal suo esterno al suo interno. Nell’accezione moderna e contemporanea, indica invece un moto psichico di carattere unidirezionale che investe un me senza nome, per quanto incarnato, che si volge verso un altro Io altrettanto anonimo. E ciò sino a veicolare l’idea di un moto psichico di carattere circolare che dando luogo a una simmetria tra il me e un altro Io, viene a costituire gli stessi in un circolo simpatetico. C’è da considerare che la sua particella “en”, nella prima accezione, sottolinea la dimensione patetica che caratterizza la sensibilità psichica; in quanto espressione di una potenza ‘estranea’ che entrando in contatto con l’anima la altera. E nella seconda accezione, segnala invece il riferimento dinamico di un Sé con un altro Sé, finendo con l’indicare un senso proiettivo e finanche fusionale della propria anima con quella altrui.

Con il fascicolo che si presenta, si intende indagare tutto questo. E come dal senso greco di empatheia come esperienza psicoestetica sotto il segno della passività e quindi tendenzialmente psicopatologica (Plutarco, Plotino, Galeno, Aristotele), si sia potuti passare alla moderna Einfühlung come atteggiamento intenzionale estetico-psichico che dispone tout court alla comprensione dell’altro per via intraemozionale – sino ad assurgere, nella vulgata, a modello di rapporto umano. E intende altresì interrogarsi se in un’analisi approfondita della stessa esperienza dell’Einfühlung non risuoni ancora il timbro semantico dell’antica empatheia.

 

Quattro sono le serie di domande che ci siamo proposti intorno al problema, tutte tra loro correlate.

  1. In che misura è possibile una relazione empatica come immedesimazione nel sentire dell’altro, e che quindi sia possibile tale da implicare un accesso privilegiato alla mia esperienza interna? Non riposa ciò sull’assunzione che io possa disporre di una diretta comprensione e di un’immediata certezza del mio stato interno e dei miei sentimenti? Non vi è forse in tale assunzione un mito da ripensare? Soprattutto quando immagino una mia capacità di comprendere i vissuti interiori e i sentimenti dell’altro proprio per il fatto che sentendoli dall’interno posso riviverli? E ancora, un tale mito non sarebbe l’erede di quella prospettiva internalista che considera vera la conoscenza fondata non già su processi affidabili derivanti dall’esperienza esterna, bensì su esperienze interne del soggetto. E per un altro verso, l’affermarsi a-problematico di un tale mito non finirebbe con l’oscurare la differenza necessaria alla definizione di Sé che intercorre tra dimensione a priori della coscienza e dimensione fenomenica?
  2. In altre parole, il darsi di una teoria forte della relazione empatica come immedesimazione nel sentire dell’altro, non sarebbe sempre erede della riducibilità della coscienza a una spiegazione naturalistica? Quando ci sarebbe invece da ritenere che rispetto alla coscienza il pensiero ha da assumere la dimensione paziente dell’ascolto e la fatica dell’interpretazione? E sarebbe ancora oggi possibile far riferimento alla teoria estetico-psicologica che sulla scia di Robert Vischer e Johannes Volkelt, propose Theodor Lipps? Come sappiamo lì si invitava a considerare l’Einfühlung come impulso a trasferire nell’oggetto (artistico) le proprie emozioni. E propugnando una teoria dell’esperienza artistica tutta interna alla soggettività egoica, si giungeva a dilatare tale comprensione intrapsichica per farne un modello della comprensione interpsichica. Sarebbe ancora possibile ereditare, senza adeguatamente ripensare, la teoria generale della modalità comprendente di Wilhelm Dilthey? Come si potrebbe ancora designare con il termine Einfühlung, come egli faceva, una vera e propria penetrazione del contenuto psichico di un altro, talché l’Io potendo venire a ritrovarsi nel Tu, era in grado di accedere all’Erlebnis, al vissuto di altro?
  3. Perché non provare a riflettere ancora più profondamente sul rapporto tra Einfühlung e alterità? Innanzitutto, rammentando che a proposito della comprensione storica, l’Einfühlung come fusione interpsichica fu già problematizzata sul piano epistemologico da Georg Simmel. Egli infatti sostenne che una tale nozione andasse criticata nel presupposto di un inaggirabile abisso tra l’Io e il Tu. E secondariamente, ricordando come lo stesso Husserl abbia comunque liberato l’Einfühlung dal suo oscillare tra proiezione (mimetico-estetica) e fusione (psico-spirituale). Nonostante l’Einfühlung mantenesse il tratto di una prestazione psichica che attiene alla intenzionalità della coscienza, con questo pensatore la struttura monadica dell’Io veniva caratterizzata da una originaria relazione percettiva con il mondo, per cui non veniva immaginata senza finestre: per un verso, la soggettività cosciente era per così dire l’effetto dell’esperienza; e per un altro, nella sfera del proprio permaneva uno strato del mondo dell’oggettività, quale espressione dell’irriducibile correlato della intenzionalità della coscienza. Si può allora dire che nell’analisi dell’esperienza dell’Einfühlung di Husserl, risuoni ancora il significato dell’antica empatheia? Tra l’altro, il suo “sentire-in” sarebbe sì un sentire dentro l’altro, ma solo nel modo del “come se”: sarebbe il darsi di una traccia interna alla soggettività egoica che porta l’intenzionalità a una soglia critica dove attività e passività vengono simultaneamente a dispiegarsi.
  4. Infine, la passività che accoglie il patire, ovvero l’essere affetti dall’affetto dell’altro, può essere davvero sottratta all’alternativa tra proiezione e fusione? E se sì, come? Forse dismettendo l’idea che coscienza e sentire siano la stessa cosa? E, insieme a questo, magari pensando che tra dimensione percettivo-estetica e dimensione intellettuale della coscienza ci sia il costituirsi di una originaria relazione dove l’empatia svolge una funzione decisiva? In una tale prospettiva l’empatia sarebbe allora da intendere in senso radicale: vale a dire come quella esperienza che essendo sottratta sia alla coscienza, sia all’autosufficienza dell’intenzione sia a ogni tipo di progetto, non sarebbe che un sentire giunto al grado zero dell’accogliere. Per questa via, la passività che accoglie il patire, oltrepasserebbe la proiezione e la fusione proprio perché l’alterità che viene accolta, sarebbe da assumere come traccia non già dell’ego, bensì del Sé: una traccia di quella che, per dirla à la Nietzsche, è “la grande ragione del corpo” che precede la stessa soggettività dell’Ego.

Queste quattro serie di domande vogliono riflettere sull’Einfühlung, al fine di problematizzare la sua assunzione in un senso ingenuamente naturalistico, mentre – per un altro verso – si assegna a questo atteggiamento un valore. Si raccolgono a tal fine vari contributi, dove inizia a risuonare una specifica riflessione critica su questa nozione. Si tratta di contributi provenienti da differenti campi di studi: dall’estetica alla filosofia, dalla storia della scienza alle scienze cognitive, dalla teoria della conoscenza alla letteratura, dalla storia della cultura tedesca a quella ebraico-tedesca, dalla riflessione fenomenologica alla psicoterapia analitica junghiana.

 

  1. Può essere considerata un falso mito la duplice convinzione che la capacità di riconoscersi allo specchio sia un indicatore di autocoscienza e che l’accesso privilegiato alla propria esperienza interna costituisca la condizione necessaria e sufficiente per esercitare una capacità non problematica di praticare l’empatia e di comprendere lo stato interno e i sentimenti dell’altro. Occorre piuttosto formulare una tesi che sia critica rispetto all’idea che accorda una priorità esclusiva al caso in prima persona supponendo una stretta connessione tra l’autocoscienza e la nostra capacità di pensare agli altri. A sostegno di questa tesi c’è l’inevitabile presenza di uno scarto che preclude la possibilità di una totale coincidenza della persona con il proprio corpo e la propria mente e che ci costringe ad andare “oltre” noi stessi. E ciò, se vogliamo davvero esercitare quelle prerogative inerenti alla creatività della natura umana che spingono verso la necessità di superare gli stili di pensiero abituali ed egemonici e le forme di vita abituali e consolidate. D’altra parte, tali conclusioni sono supportate e confermate sia dagli attuali sviluppi delle neuroscienze che dalla fisica quantistica. In altre parole, l’esistenza, quella autentica, presuppone ed esige la volontà e la capacità di spezzare l’adeguamento e l’adattamento del sé a sé stesso, sprigionando l’iniziativa e aprendosi al cambiamento e all’innovazione. Ovvero la logica di un’esistenza autentica è quella de-coincidenza da sé stessi che esige la disponibilità a rimettersi in gioco, aprendo una breccia nella normalità acquisita (nella sua funzionalità ammessa), osando insomma uno ‘scarto’. Proprio per tutto questo, il modo di vedere e trattare la relazione empatica non può evitare di fare i conti con tale scarto o fingere di non vederlo, illudendosi che si possa disporre senza problemi di una diretta comprensione e di un’immediata certezza del proprio stato interno e dei propri sentimenti. Praticare un’esistenza veramente autentica implica piuttosto il dissociarsi parzialmente da sé, il ricorrere alla eccentricità, l’essere eccentrici. Ciò significa che, pur vivendo con un proprio centro sensoriale, cognitivo, emotivo, ci si deve collocare al di fuori di un tale centro, e facendo propria l’idea di Jung di un come centro potenziale dello psichico attorno al quale l’Io ruota, saggiarne e valutarne la consistenza e l’adeguatezza. Questo – secondo lo stesso Jung – non è soltanto il centro, ma è l’intero perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme: il , in quanto mondo intermedio tra l’inconscio e la coscienza, ha i caratteri della totalità della determinazione possibile della psiche individuale, e quindi di completezza e globalità, mentre l’Io, come sua espressione effettuale, è il centro della coscienza. La psiche va, di conseguenza, intesa come un sistema centrato rispetto al Sé e acentrato rispetto all’Io. D’altronde, le nozioni di centro virtuale e di Asse Io-Sé, che sono alla base del pensiero junghiano e della sua concezione della personalità umana, vengono oggi corroborate e addirittura approfondite e consolidate in modo significativo attraverso le teorie quantistiche (Silvano Tagliagambe).
  1. D’altro canto, nell’ambito della scienze cognitive, alcuni studiosi hanno proposto teorie dell’empatia sulla base dell’approccio simulazionista alla cognizione sociale. In questo quadro, può essere tracciata una distinzione fra un’empatia “primaria” (o “rispecchiamento” o “mindreading di basso livello”), caratterizzata da una precoce comparsa nell’ontogenesi, e un’empatia “ricostruttiva” (o “mindreading di alto livello”) dallo sviluppo più tardo e basata su una capacità di simulazione immaginativa più complessa sotto il profilo concettuale. L’empatia in quanto rispecchiamento porta all’attribuzione di stati mentali semplici come le emozioni di base della tradizione psicoevoluzionistica; l’empatia ricostruttiva conduce all’attribuzione di stati mentali complessi come gli atteggiamenti proposizionali. Esaminando criticamente queste idee sull’empatia, ci si può concentrare su due filoni della teorizzazione simulazionista: la teoria dell’empatia primaria basata sulla neuroscienza dei neuroni specchio; e la teoria dell’empatia ricostruttiva basata sul mindreading di alto livello proposta da Alvin Goldman. Ambedue le proposte teoriche incontrano però grosse difficoltà (Massimo Marraffa).
  1. Dando per certo che il concetto “empatia”-“immedesimazione” sia la doppia traduzione dell’unico lemma tedesco Einfühlung, va però ricordato come proprio Walter Benjamin abbia ingaggiato un vero e proprio corpo a corpo di tipo critico con un tale concetto. E vi abbia inflitto continuamente un duro colpo – così come, dopo un’azione di svincolo della propria lama da un certo legamento dell’avversario, lo schermitore gli infligge, dall’alto verso il basso, un preciso fendente. L’ultimo colpo glielo infliggerà nel 1940 quando, nelle tesi Sul concetto di storia, ammette che chi scrive di storia non deve immedesimarsi nello spirito dell’epoca (nello Zeitgeist) che sta indagando perché ogni volta che lo facesse si metterebbe al servizio del vincitore: secondo la “sociologia del dominio” di Max Weber, sarebbe un sentire di vivere con il dominatore di turno, sarebbe un farsi dettare la propria condotta da chi ha già dominato, già innovato, già cambiato le regole. Ma il negare allo storiografo un approccio contemplativo che in fondo veicola la possibilità di “immergersi” nell’epoca che di volta in volta egli mette a tema, è l’emblema che le cose sono proprio tali perché hanno il potere di resistere alla nostra intenzionalità. È questo, se vogliamo, l’altro colpo che il filosofo aveva già inferto quindici anni prima al concetto di empatia. Quando, nell’Origine del dramma barocco tedesco del 1925, aveva rilevato come il procedimento di immedesimazione fosse strutturalmente legato a una prassi psichica malinconica. E in particolare a quella attitudine accidiosa che dispiegando un vuoto tra una intenzionalità coi caratteri del lutto e la realtà, rivela come le cose reali, nella loro ineludibile durezza, siano indipendenti rispetto a qualsivoglia nostra intenzionalità, opzione, scelta di sprofondarvi. D’altronde, discutendo proprio il procedimento dell’immedesimazione, Benjamin maturava analisi che, da un lato, avevano trovato spunto nell’eco delle prime indagini di psicologia e sociologia delle masse (Max Weber, Willy Hellpach), e, dall’altro, influenzeranno le osservazioni sullo statuto delle immagini di guerra di Susan Sontag (Massimo Palma).
  1. Si può d’altra parte cercare dell’empatia una definizione minima. E ritrovarla nell’empatia della forma espressiva, che è studiata dalla linguistica. Lì l’empatia emerge come “sintassi” della comprensione delle espressioni-io/tu/egli. A tal fine, si può presentare una prima definizione di percezione dell’espressione altrui (Husserl). E affrontare due ipotesi che in modo diverso affrontano il rapporto tra anafora e deissi (Brandom e Bühler). In ciò l’obbiettivo è quello di abbozzare un terzo modello di empatia, oltre a quelli idraulico e analogico, in cui è stata opportunamente divisa la storia di quest’idea (A. Pinotti). E precisamente c’è l’obbiettivo di proporre un modello anaforico di empatia. Un modello che attraverso una sintassi povera ma stabile, permette di uscire dall’alternativa imitazione-proiezione, analogia-infusione, e consente all’implicito di fare il suo lavoro senza diventare qualcosa di intimo o di trasparente (Felice Masi).
  1. Occorre comunque sottrarre la teoria dell’empatia alla retorica classica della “fusione intrapsichica” e all’accezione estetico-mimetica di “rispecchiamento”. Un tale intento può trovare almeno due importanti argomenti a favore. E li può trovare precisamente nell’elaborazione della husserliana “esperienza dell’estraneo” (della Fremderfahrung). In primo luogo, l’irrinunciabile ancoraggio esperienziale dell’atto di appresentazione (Appräsentation) posto alla base dell’intenzionalità diretta all’esperienza d’estraneo. In secondo luogo, il necessario decentramento immaginativo implicato nella dinamica associativa del “farsi coppia” (della Paarung), che permette di preservare l’alterità da una totale assimilazione. Entrambi gli argomenti pongono come elemento cruciale di intersezione il corpo vivo. Il cui ruolo fondativo diviene emblematico in relazione a un particolare tipo di intenzionalità preriflessiva, caratterizzabile come trans-corporea (transleiblich). Questo specifico tipo di intenzionalità può porre le basi per una riconfigurazione delle teorie sull’empatia in un’ottica più radicale, che renda conto dell’interconnessione simpatetica tra i corpi (Andrea Lanza).
  1. Una particolare riflessione critica intorno al concetto di empatia si può mirare anche a ricostruirla, entro il più ampio perimetro del pensiero pedagogico-educativo di Martin Buber. Analizzando il suo discorso Über das Erzieherische, pronunciato nel 1925 e pubblicato l’anno seguente, possiamo prendere in esame i contenuti specie in riferimento al rapporto, in chiave dialogica, tra maestro e allievo, e alla biforcazione concettuale tra due diversi approcci nell’azione educativa. C’è l’“empatia” dove il soggetto, dimenticandosi di sé e perdendo, di conseguenza, il proprio statuto di Tu, si mette al posto dell’altro e sente al posto suo (Einfühlung). C’è, invece, la “comprensione” laddove la si intenda letteralmente come movimento abbracciante che “comprende”, “circonda”, “contiene” l’altro, conservandone la diversità (Umfassung). Il primo approccio è fuorviante e pericoloso, il secondo, mantenendo l’igienico intervallo tra Io e Tu, è fonte di relazioni autentiche e durevoli (Massimiliano De Villa).
  1. C’è da ricordare che l’empatia ha in vario modo indirizzato la clinica verso una maggiore attenzione alla consonanza emotiva tra terapeuta e paziente. Ma c’è da dire che così facendo l’empatia ha innanzitutto rischiato di entrare nel novero dei concetti (senza sufficientemente pensare cosa si stava facendo). E così ha finito con l’ostacolare la terapia anziché facilitarla. In altre parole, l’incidenza dell’astrazione nella prassi terapeutica, già espulsa dalla porta, rientrava dalla finestra, e quello che avrebbe dovuto essere un concetto facilitante finiva con il collocarsi nell’Olimpo dei costrutti normativi di cui ci si tentava di liberare: l’empatia diveniva qualitas comunicativa da raggiungere, un compito sovrapposto alla spontaneità del dialogo e, di conseguenza, all’intellegibilità di quei contenuti psichici che sarebbero più naturalmente emersi attraverso un genuino scambio. Restando ai confini dell’empatia si può, più in generale, sottolineare la distanza che si è creata in psicoterapia dinamica tra le categorie e i concetti clinici dei fondatori della disciplina e un agire quotidiano degli operatori fondato com’è sul dialogo e l’esperienza consolidata. D’altronde, non dimentichiamoci, fu lo stesso Freud a parlare di “spirito congetturale” (zu erraten), di ipotesi, di teorie usate esclusivamente in senso metaforico, di teorie che essendo invenzioni, sono come tali surclassabili. Il termine ‘erraten’ che egli adoperò ha infatti a che fare con il tentativo della messa in forma di un qualcosa che non è di per sé rappresentabile e come tale è possibile che alla coscienza si mostri nella forma di un’idea de-lirante: «tutte le notti – scriveva Freud a Fliess sin dal maggio del 1895 – non ho fatto altro che immaginare (Phantasieren), tradurre (Urbersetzen), divinare (Erraten)». E non dimentichiamo, altresì, che fu sempre Freud a metterci in guardia dalla reificazione dei concetti teorici: egli ammise che ogni teoria – che si dispiega al fine di far comprendere meglio qualcosa – non può non sfociare in un processo di ipostasi e che perciò la sua stessa teoria va assunta come mitologia: la Strega! È proprio a partire dall’esperienza (clinica), che si può invece giungere a indicare, con le avvertenze che si è detto, alcune “ricette” che possano agevolare l’esercizio psicoterapeutico (Mauro La Forgia).
  1. L’empatia non va innanzitutto intesa come un oggetto osservabile. Essa va piuttosto intesa (à la Jung) come una funzione psichica. E in particolare come una funzione psichica di tipo relazionale. Proprio in quanto tale, garantirebbe la progressiva presa d’atto e il ri-conoscimento di un qualsiasi fenomeno naturale nella condizione originaria dell’esser condiviso in quanto appartenenti alla stessa specie. Sicché tradurrebbe una processualità psichica specie-specifica (sovraindividuale) nei limiti della coscienza individuale – così come prima ci batte il cuore e poi ci accorgiamo che il cuore ci batte. Se non vogliamo cadere in una sorta di naturalismo psichico, c’è da dire che l’“accorgersene” è già un primo livello di astrazione dove l’individuo traduce in sensazione/emozione, non ancora in linguaggio, ciò che il suo corpo ha percepito. Siamo qui per un verso a un livello puramente soggettivo, che però si colloca su un piano comune alla specie e quindi a livello di un “con-essere”. Diviene “conoscenza” – ovverosia convenzione – attraverso la condivisione in una parola che è lì a fondare la prima categorialità astrattiva di un fenomeno naturale. Ispirandoci fortemente alla teoria junghiana, è possibile allora trovare nell’“ecfrasia” la migliore espressione dell’empatia e nell’empatia le basi per la comprensione reciproca umana e la comprensione delle convenzioni mondiali come la lingua e la sua coniugazione nel passato, presente e futuro. Basandoci su questo concetto, si può assumere che l’empatia sia ciò che tiene tutto insieme. La psicoterapia rimane comunque il nostro principale contesto di ricerca all’interno del quale l’empatia, come un tratto umano specifico, è ciò che produrrebbe cambiamenti naturali e tradurrebbe la relazione in una modalità ecfrasica lungo una linea di pura soggettività. Va a questo punto ricordato che l’ékphrasis (ek, ‘fuori’; phrasis, ‘parlare’) è una forma retorica che si è sviluppata come critica alla tendenza logocentrica, considerando, tra l’altro, che talvolta le parole, se scelte bene, hanno in sé una grande forza, per cui una certa descrizione può offrirci idee più vivaci della stessa vista delle cose. Con l’ecfrasi siamo in effetti ai confini delle rappresentazioni verbali e visuali. E nel suo darsi come ricerca di significazione e quindi come sfida del dicibile e insieme dell’invisibile, l’ecfrasi implica un cercare di far agire, comunque dentro al verbale e il visuale, le zone di reciproca opacità, ovvero l’“imperfezione” delle loro grammatiche. D’altra parte attraverso l’ecfrastica che studia il rapporto tra letteratura e arti figurative, siamo stati invitati verso una continuazione della narrazione: ora mostrando, in un gioco di rimandi paradossali, l’invisibile del testo; ora esibendovi un punto cieco e quindi ricercando, magari inquietamente, i punti opachi delle singole forme d’arte; ora avventurandosi in altri campi perché nessuna delle arti può da sola esaurirsi nella propria rappresentazione (Amedeo Ruberto).
  1. Va cautamente ipotizzato che il meccanismo dell’immedesimazione sia presente in quel livello evolutivo in cui la coscienza emergendo dalla materia, è legata all’organizzazione fisiologica e al primato del corpo. Nel far ciò va quindi considerato che tale meccanismo accade senza un Io. E precisamente accade in quella «grande ragione del corpo» che aveva detto Nietzsche, precede ogni forma di soggettività. Insieme a questo, va considerato che le emozioni più sono comuni alle diverse specie animali più la loro origine è antica. «Persino il verme quando è calpestato si rivolta», concluderà Darwin nei suoi Taccuini filosofici – così come la dignità offesa provoca nell’uomo la stessa reazione. D’altra parte l’imitazione e l’empatia, anche ai livelli evolutivi più elementari, transitano attraverso quella porta che è l’occhio. E l’occhio vivente, quella cabina che è più vicina al cervello, essendo una membrana dove interno ed esterno si specchiano, non è solo un confine, ma è anche un sensore al servizio delle emozioni (Antonino Trizzino).
  1. Occorre comunque tentare un ripensamento dell’empatia al di fuori di un paradigma centrato sull’“interiorità”. E ciò perché le attuali concezioni dell’empatia presuppongono quasi sempre l’interiorità come luogo privilegiato per una visione esaustiva di una certa classe di enti: l’“anima” o la “mente”, la si chiami come si vuole, come luogo immateriale e tutto interno a sé stesso da cui guardare, “da dentro”, “cose” che di questo “luogo” condividono la stessa stoffa immateriale – i vissuti, le emozioni, le intenzioni, cose “mentali” o fatti dello spirito che non hanno mai smesso di essere modificazioni della “res cogitans” e che si possono offrire solo a una visione “interiore”. Sotto questo punto di vista, la relazione con l’Altro è, o può essere, di natura empatica solo facendo dell’introspezione il paradigma dell’empatia, ridotta, a questo punto, a un impiego estensivo della prima. Se, infatti, l’introspezione è l’unico modo per avere accesso a quei fenomeni interni che costituiscono l’oggetto della psicologia, l’empatia non potrà che essere una sua variante, ossia la visione “da dentro” del mondo interiore altrui. Quanto, però, questo approccio resti nell’ambito dell’ipotetico e sconfini con la proiezione immaginaria lo sapeva già bene lo stesso Husserl, allorché definiva l’empatia «un enigma oscuro e addirittura tormentoso». Occorre invece tentare di ripensare l’empatia – come si è detto – al di fuori di una prospettiva internalista. E lo si può fare attraverso un ribaltamento di prospettiva. Sicché, per un percorso a più entrate, è opportuno privilegiare la dimensione di un’esteriorità non interiorizzabile. Un’esteriorità che tuttavia è costitutiva del sentire e dell’essere del soggetto (Luca Pinzolo).

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

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