20 n.s./2017
IL SUONO
DELLA VOCE

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a cura di

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

PREFAZIONEFabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri // IL TEMA / A due voci. Quasi un dialogo per nastro magnetico, Glasharmonika e rumore di fondoFabrizio Desideri // PRIMO MOVIMENTO / Tra mutoli e scilinguati: una rapsodiaSilvano Facioni / Dalla grana della voce alla grana della scrittura. Alcune riflessioni sulla parola detta e scrittaGiorgio Patrizi / Flatus Vocis. Voce e scrittura tra Jacques Derrida e Giorgio AgambenFrancesco Vitale / La voce tra sonorità e respirazione in Emmanuel Lévinas. Abbozzo di una metafisica dell’atmosferaLuca Pinzolo // SECONDO MOVIMENTO / Incunaboli esteticiEllen Dissanayake e Mariagrazia Portera / Quando un corpo incontra il linguaggio. Modulazioni vocali nella talking cureMaria Ilena Marozza / Gesti vocali. Conflitti tra mimesi e sensoCarlo Serra / La voce delle paroleMauro La Forgia // RIPRESA DEL TEMA / Il coraggio (e il bisogno) di regredire. Dalla semantica alla fonetica, dal significato al puro e semplice suono delle paroleSilvano Tagliagambe / Robert Walser. L’invenzione del silenzioAntonino Trizzino // INDICE PER AUTORE DEGLI ARTICOLI DI “ATQUE” 1990-2017

 

 
 

[Anteprima delle prime pagine di ogni articolo del fascicolo.]

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Nell’intersezione tra filosofia e psicoterapia, tra estetica e psicologia, questo fascicolo di «atque» intende focalizzare l’attenzione sulla voce. E riflettendo su questa fondamentale esperienza umana, si sofferma sul fenomeno del suono delle parole declinandole nella loro fisicità e materialità elementari.

Lasciando sullo sfondo la sfera verbale, il fascicolo mira a porre in primo piano il comunicarsi plurale delle voci, la vocalità dei parlanti, la pura sonorità che apre concretamente qualcuno a qualcun’altro. Non più nascosta dalla parola, la voce viene in tal modo a mostrare il suo volto fonico, comparendo come un oggetto sonoro che apre alla percezione di un interno e un esterno e all’instaurarsi di plurali relazioni.

Specificamente, una tale indagine prende a oggetto la voce articolandola sul piano ontologico e su quello qualitativo. Della voce vuole infatti indagare la sua singolarità ma – assumendo criticamente le versioni fonocentriche – vuole riflettere sulla sua unicità e insieme, sulle varie relazioni che via via intrattiene. E della voce vuole altresì indagare come essa si dia: riflettere su come la percezione dell’elemento puramente materiale della voce – le valenze sonore della parola, il suo timbro e la sua grana – entrino direttamente in contatto con il corpo, suscitandone per così dire un godimento.

Rispetto a che cosa sia, potremmo invece dire, da un lato, che la voce è suono prima che parola, e da un altro, che le parole, proprio nel loro insistere nell’universo acusticamente significativo, hanno una intrinseca connessione con la comunicazione vocale. In questa prospettiva è dunque importante leggere la voce orientandosi sulla costituzione materiale dell’oggetto sonoro, prima ancora che sulle sue significazioni. In altri termini, c’è sicuramente un livello di comprensione della voce come veicolo di significati e come sorgente di un’ammirazione estetica, ma prima ancora c’è da pensare un livello di esistenza della voce come oggetto incarnato che in quanto tale è una leva che svolge una azione causativa su vari piani, per esempio nella costituzione del soggetto.

 

  1. Il fascicolo si apre con il tentativo di intrecciare un dialogo filosofico tra due entità immaginarie: vox reflexa e vox áltera sono i loro nomi. Il dialogo immaginario riguarda la voce come alterità originale. Lì il lettore troverà tanti riferimenti, tra cui: Hegel, Platone, Aristotele, Agostino, Daniello Bartoli, Derrida e molti altri ancora (Fabrizio Desideri).
  2. Quando si cerca di indagare il significato della “voce”, dobbiamo innanzitutto prendere in considerazione come essa sia stata studiata lungo la tradizione del pensiero occidentale. È per ciò che occorre sondare alcune teorie filosofiche rilevanti (Aristotele, Hegel, Agostino) e alcune opere letterarie (Kafka, Artaud). Da qui, ma anche da alcune incursioni nell’ambito della psicoanalisi (Mladen Dolar) e da ricche indagini critiche sul fenomeno della glossolalia (di cui è emblematica l’intera vicenda di Hélène Smith), è possibile fondamentalmente osservare che se la voce e la parola vengono principalmente considerate ciascuna come una singola questione, la voce sembra sfuggire a questa dicotomia (Silvano Facioni).
  3. D’altra parte, parlando del significato della voce e in particolare del suono delle parole non si può non riflettere sulle parole dette e su quelle scritte. E per giungere a questo, passando dalla grana della voce alla grana della scrittura, risulta importante partire dal percorso teorico e critico che Roland Barthes compiva tra gli anni ’70 e ’80. È lì, infatti, che si è venuto a definire un processo che attraversando la critica del post strutturalismo, rifiutava le tradizionali modalità della scrittura per sostituirvi quelle che ne testimoniano le radici materiali, corporee. In questo senso, vanno ricordate le riflessioni sulla tradizione della vocalità (Zumthor) attraverso cui Corrado Bologna, da un lato, tracciava il complesso quadro antropologico sulla centralità dell’esperienza della voce, e dall’altro, citando Lacan, veniva a sostenere il primato della phoné (“la parola che accenna”) sul logos (“la parola che afferma”). Proprio a partire da tale primato è possibile assegnare un qualche valore sia alla teoria secondo cui «il simbolico passa per la voce», sia a quell’altra teoria che intende l’inconscio «strutturato come un linguaggio». E in questo senso, è importante ricordare le teorizzazioni di Adriana Cavarero sull’affabulazione propria della cultura militante femminista. D’altronde è per queste vie che si approda al riconoscimento dei valori antiautoritari della voce, nella contrapposizione dialettica tra Pensiero unico e Pensiero del molteplice. Tant’è che proprio passando da Barthes a Ong, da Zumthor a Bologna, da Benjamin a Cavarero, la voce riesce davvero a confrontarsi con l’universo dei corpi e delle parole – dette e scritte (Giorgio Patrizi).
  4. Sempre intorno a voce e scrittura e alla loro tradizionale opposizione, è opportuno rendere conto della relativa decostruzione che ebbe a compiere Jacques Derrida. E ciò attraverso una precisa critica della vulgata secondo cui la sua decostruzione consisterebbe in una presa di partito per la scrittura contro la voce. La lettura critica del saggio “Experimentum vocis” di Giorgio Agamben, esempio recente proprio di questa vulgata, permette infatti di individuare la posta che è veramente in gioco nella strategia di Derrida: da un lato, rilevare ciò che l’opposizione tradizionale tra voce e scrittura occulta nel determinare la voce quale elemento privilegiato, immediato e vivo, del logos; da un altro, descrivere le condizioni di possibilità della costituzione del senso nei termini che la tradizione attribuisce alla scrittura, formalizzando tali condizioni attraverso la nozione di “arche-scrittura” (Francesco Vitale).
  5. D’altronde la voce può essere colta nell’intersezione tra sonorità e respirazione, e giungere così ad abbozzare una metafisica dell’atmosfera. Le conferenze giovanili che Lévinas tiene al Collège Philosophique e alcune pagine del suo Altrimenti che essere, ci regalano infatti l’immagine di una phoné che si articola in una pluralità di voci in cui lo stesso essere emerge come “scisso in Medesimo e Altro”, ma che, una volta ricondotta alla ritmica del respiro, può essere intesa come dinamica di individuazione in cui il soggetto, già sempre installato nel proprio essere, lo assume su di sé e in sé come essere dell’Altro e del Medesimo. È per questa via che l’aria, elemento materiale dell’animazione del vivente, diventa addirittura sostanza dell’essere di ciascuno di noi come essere in relazione (Luca Pinzolo).
  6. Riflettendo sulla voce, non si può non porre attenzione alle interazioni precoci tra il bambino e chi se ne prende cura. È in tali scambi che è possibile percepire nitidamente come vengano a darsi comportamenti multimodali (vocalizzazioni, espressioni facciali e movimenti del corpo in forma esagerata). E cogliere come questi accadano in modo ripetuto e con modalità pienamente formalizzate. A partire da tali fenomeni, cui colloquialmente è stato assegnato il nome di baby talk, è d’altra parte possibile rintracciare come il comportamento estetico-artistico adulto venga a darsi in modo spontaneo e inintenzionale. È in questo senso, che il baby talk può essere assunto come la “culla” dove prendono forma gli “incunaboli estetici”: vale a dire quei dispositivi di base (ripetizione, stilizzazione, elaborazione, esagerazione, manipolazione dell’aspettativa) che utilizzati dai bambini e da chi se ne prende cura per modulare il reciproco coinvolgimento emozionale, vengono ripresi e “rifunzionalizzati” dagli artisti per coinvolgere e attrarre l’attenzione del pubblico. Partendo dalla teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale e traendo supporto empirico e sperimentale da una molteplicità di discipline differenti (dall’etologia alla neurobiologia, dalla psicologia dello sviluppo alla paleoantropologia), ritiene la studiosa americana Ellen Dissanayake che il baby talk si sia evoluto più di un milione di anni fa, per incrementare sia le chances di sopravvivenza dei piccoli di Homo che il successo riproduttivo delle loro madri. Ed è altresì da ritenere che le arti – rifunzionalizzando gli incunaboli estetici già presenti e operanti nel baby talk – compaiano nei rituali per la prima volta al modo in cui le sperimentiamo e concepiamo ancora oggi: un making special, o artification, intenzionale e deliberato, che “exatta”, co-opta, l’“artificare” spontaneo dei bambini (Ellen Dissanayake e Mariagrazia Portera).
  7. La voce – preme ricordarlo – è una dimensione che assume uno straordinario interesse anche nella talking cure. E ciò, quando la nostra attenzione si allontana dalla mera comprensione dei significati del discorso dell’analizzando, e si concentra sulla globalità dell’atto linguistico, nella sua valenza di azione corporea. Ci accorgiamo così che nella vocalità convergono molteplici funzioni degne di nota. Sicché: in primo luogo, si descrive il valore di appello intersoggettivo intrinseco alla natura stessa della voce; in secondo luogo, ci si chiede in che senso la voce possa essere intesa come il segno di una singolarità individuale; in terzo luogo, ci si sofferma su che tipo di presenza singolare esprima la vocalità, e su come proprio questa singolarità sia l’elemento che più interessa la talking cure (Maria Ilena Marozza).
  8. A proposito di gesti vocali, è comunque opportuno percorrere la vicenda interpretativa del concetto di voce, sospesa com’è tra la nozione di altezza e quella di imitazione. Lo statuto della voce, difficilmente arginabile all’interno della nozione di segno, è possibile interpretarlo rispetto alle componenti sonore, gestuali, materiche della dimensione vocale, con particolare riferimento alla dimensione dell’urlo. È per ciò che occorre tentare una seppur rapida ricostruzione del concetto di vocalità in Jacques Lacan: dalle forme appellanti, alla definizione progressiva dell’“oggetto piccolo a”. E attraverso le riflessioni sulla voce di Mladen Dolar, mettere in questione la stessa nozione di “significante” che, in questo contesto, diviene un’espressione approssimata per definire il conflitto fra senso, connesso alla dimensioni sensibili della matericità vocale, e significato che non può essere più inteso secondo una prospettiva referenziale – per quanto, secondo la direzione husserliana che si articola dalle Ricerche Logiche fino alla Sintesi Passiva, andrebbe invece riletto come sostrato permanente delle forme di modalizzazione. La breve rassegna che ne deriva, si chiude con la proposta di un modello deittico dell’urlo, ripensato sempre secondo modalità descrittive (Carlo Serra).
  9. La voce delle parole e i diversi modi di esprimere il nesso tra parole e “linguaggio interno” è possibile coglierli prendendo in esame alcune celebri forme di dialogo presenti in letteratura (Tolstoj, Malraux). Per poi – attraverso gli studi di L. Vygotskij su pensiero e linguaggio e alcuni punti di vista fenomenologici (Husserl, Binswanger, Derrida) – giungere però a studiare il rapporto tra linguaggio e vita. E per questa via, avanzare infine alcune indicazioni sulle forme più efficaci di ascolto e di espressione verbale in quella “cura con le parole” che è la psicoterapia (Mauro La Forgia)
  10. Va detto che è possibile passare dalla semantica alla fonetica, trasmigrare dal significato delle parole al loro puro e semplice suono. A condizione però che si senta il bisogno, e si abbia il coraggio, di regredire. È vero che buona parte del pensiero contemporaneo riconosce al linguaggio la principale funzione di rappresentare com’è il mondo, per cui, in ogni spiegazione del linguaggio e utilizzazione della lingua, assegna un ruolo fondamentale alla nozione di rappresentazione. Di contro, è altrettanto evidente che il crescente uso improprio, e l’abuso, del linguaggio finiscono con l’alterare la conoscenza concettuale così come quella semantica e fanno sì che una parola o una frase perdano un significato per l›ascoltatore, che poi percepisce il discorso come una ripetizione di suoni senza senso. Proprio per tutto questo può essere istruttivo compiere un passo indietro, una regressione al livello della fonetica, al solo suono delle parole. E in ciò ci soccorre l’approccio radicalmente deflazionistico ispirato da Tarski e propagato da Quine e altri. In effetti, laddove appare il cosiddetto “devirgolettamento”, le nostre teorie semantiche tendono a perdere il loro potere esplicativo. L›intuizione originale di Tarski era che la semantica vero-condizionale di qualsiasi lingua deve essere indicata in modo ricorsivo in un metalinguaggio distinto in termini di soddisfazione delle formule, che comprendono predicati e variabili libere, per evitare le forme paradossali di autoreferenzialità. È opportuno convenire che questa posizione non include la conoscenza semantica della lingua di riferimento che invece si presenta a livello fonologico o ortografico (Silvano Tagliagambe).
  11. Questo fascicolo di «atque» sulla voce e sul suono delle parole non può chiudersi senza chiamare in primo piano il tema fondamentale del silenzio. E lo fa con un testo sull’invenzione del silenzio operata da Robert Walser: sul suo «non dire niente, quasi niente». Come sappiamo, la lotta per l’esistenza scaricò Robert Walser nell’unico luogo dove l’esistenza è abolita, in manicomio; ventotto anni passati tra un manicomio e l’altro con una vaga diagnosi di schizofrenia. Walser è oggi considerato tra i massimi autori di lingua tedesca del Novecento, un artista della prosa breve amato da Franz Kafka e Walter Benjamin. Walser amava la solitudine e l’inverno, la fuga e il silenzio. La passeggiata solitaria, a cui dedicò uno dei suoi testi perfetti, è l’ultimo rifugio prima della follia. A distanza di sessant’anni dalla morte, l’opera di Walser non ha perso nulla della sua forza d’urto e al lettore non rimane che chiedersi come faccia (Antonino Trizzino).

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

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