18 n.s./2016
L’OPACITÀ
DELL’OGGETTUALE

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a cura di Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

PREFAZIONEFabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri//IL TEMA/Opacità del mondo e conoscenza Giuseppe Vitiello//PRIMO MOVIMENTO/Sulla resistenza delle coseLuca Taddio/ Percezione e resistenza dell’oggettoAlfredo Paternoster//SECONDO MOVIMENTO/Identità corporea e identità narrativa – Massimo Marraffa/Divenire cosa divenire corpoFelice Cimatti/Oggetti dentro i corpiAugusto Iossa Fasano//TERZO MOVIMENTO/Un tocco di ri-guardoFelice Ciro Papparo/Il carcere, la tomba, il fango. Sulla fortuna di alcune immagini da Platone all’età di PlotinoMartino Rossi Monti//QUARTO MOVIMENTO/Il vetro e il velluto. La casa tra opacità e trasparenzaElisabetta Di Stefano/Bartleby o l’opacità. L’uomo segreto nella letteratura americana – Antonino Trizzino//RIPRESA DEL TEMA/Il fattore opacità. Stupidità e indeterminazione in Gilles DeleuzeUbaldo Fadini//INDICE ARTICOLI “ATQUE” 1990-2016
 
 

[Anteprima delle prime pagine di ogni articolo del fascicolo.]

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Questo fascicolo di «atque» riflette sull’intrinseca, originaria e fondamentalmente positiva, opacità del reale. Ovvero sul carattere di opacità e insieme di concretezza delle cose, delle persone, degli eventi a cui, d’altronde, varie pratiche di studio e riflessione sembrano ormai rinviare: dalla percezione all’attenzione, dal darsi del dentro e del fuori, alla relazione tra mente e corpo e tra soggetto e oggetto.

Opacità degli oggetti fisici e della materia delle cose: materialità, attrito, resistenza, persistenza, “quel che resta”, “il soggetto sottostante” non fanno altro che comporre un corollario della opacità delle cose – così come esse appaiono nel nostro campo visivo. D’altronde, nella visibilità – nel gesto della visione che accompagna il nostro situarci nel mondo – le cose, le persone, le situazioni si dispiegano nella nostra vita proprio per il loro carattere opaco e insieme concreto.

In forma di domanda: a) riusciamo, e come, ad abitare le cose che ci sono (che si danno ai nostri occhi) ma che, come tali, si mostrano nei loro caratteri di opacità positiva e concretezza piena? b) come possono procedere i nostri discorsi senza mettere in scena una eterna vittoria della mediazione linguistica e, più in generale, simbolica sulla opacità delle cose, per cui – ogni volta rinviandovi – riescano a non dire di più di quel che nel loro dire tacciono? c) si può infine affermare che proprio resistendo nella loro opacità, le cose sono ciò che danno luogo al patico, per cui – esplodendo a livello esperienziale – eccedono la nostra intelligenza sia rivelandone criticamente i suoi tratti essenziali, sia tendendo a oltrepassarla, e quindi ad aprirla a una haecceitas?

Se il tema del fascicolo è “L’opacità” e in particolare “L’opacità dell’oggettuale”, più ordinatamente i vari svolgimenti che raccoglie, possono essere sommariamente etichettati così: la resistenza delle cose; non solo soggetti; la dimensione opaca (e resistente) dell’essere un corpo (vivente); la logica dell’Es (intra-, inter-, ed esopsichico); il momento opaco della paticità.

Nello specifico, il fascicolo svolge la questione dell’opacità dell’oggettuale attraverso sei passaggi.

  1. In apertura, viene affrontato il tema dell’opacità dandone conto nei nostri processi della conoscenza. Partendo da che cosa siano l’opacità e la trasparenza, ma soprattutto dalla considerazione che non si possa non evidenziare l’esistenza di regioni di intrinseca opacità, Giuseppe Vitiello estende tali riflessioni, da un lato, agli aspetti della nostra vita di relazione con il mondo che ci circonda, e dall’altro, all’analisi di aspetti funzionali della dinamica cerebrale, per quanto attiene, in particolare, al ciclo di azione-percezione – proponendo di considerare come la nostra mente sia intrinsecamente legata al cervello, ma nel suo caratterizzarsi fondamentalmente come un sistema aperto.
  2. D’altronde, va precisato come il fenomeno della resistenza delle cose implichi che tra percezione e pensiero si istituisca un rapporto complesso ogni volta che una cosa appare. È questo che Luca Taddio analizza, e lo fa per chiarire in che consiste la presunta indipendenza della percezione diretta rispetto all’attività di pensiero, considerando specificamente che l’indipendenza della dimensione fenomenica entro una matrice realista è garantita dal fatto che le variabili “dipendenti” e “indipendenti” che costituiscono l’apparire del fenomeno, sono localizzate nel mondo, mentre l’emergere della realtà dipende da rapporti numerici che stabiliscono il senso stesso di ciò che indichiamo come “realismo” o “razionalismo materiale”. Premettendo che non sia negoziabile l’esistenza di un mondo esterno indipendente da noi (= realismo del senso comune), in quanto la presenza dell’oggetto come altro da noi ci si impone pre-intellettualmente in modo ineludibile, ma lavorando con le nozioni di “percezione”, “realismo diretto”, “principio di relazionalità”, e “principio di prossimalità”, Alfredo Paternoster difende quindi la tesi secondo cui la migliore giustificazione del realismo richiede di sottoscrivere, in filosofia della percezione, il realismo diretto – argomentando a favore di una versione relazionale del realismo diretto.
  3. Di fronte allo specifico tema dell’opacità del self, Massimo Marraffa avanza l’ipotesi che la forma più originaria di autocoscienza sia l’autocoscienza corporea, come capacità di costruire una rappresentazione analogica del proprio corpo assunto come un oggetto intero, al tempo stesso considerando questa rappresentazione come soggetto, ossia come fonte attiva della rappresentazione di sé. Per questa via, la coscienza del corpo come corpo proprio sarebbe necessaria per la costruzione dell’autocoscienza psicologica, e quindi della cosiddetta “identità narrativa”. Ma ci sarebbe anche da considerare che questa autodescrizione psicologica si incardina sull’autodescrizione corporea, sviluppandosi da questa in virtù di un intergioco – culturalmente modulato – fra mentalizzazione, memoria autobiografica e capacità sociocomunicative. Ciò che più temono gli esseri umani sarebbe comunque il loro essere ridotti a ‘mere’ cose, e a questo timore per le cose farebbe spesso da corollario l’apparentamento tra soggetto e linguaggio: la garanzia di essere un “soggetto” è cioè trovata nella capacità di dire di sé “io”. Felice Cimatti prova a comprendere questa paura a partire da una analisi filosofica della distinzione che Heidegger istituisce fra essere umano e pietra, secondo cui Homo sapiens sarebbe un soggetto proprio perché non sarebbe una cosa. La psicoanalisi sarebbe, di contro, il tentativo di dare un corpo al soggetto: vale a dire, sarebbe il paradossale tentativo, da un lato, di liberare il corpo umano dalla parola, e, dall’altro, di consentire al soggetto umano di diventare un corpo, cioè una cosa.
  4. Alla domanda di come possano procedere i nostri discorsi senza mettere in scena una eterna vittoria del linguaggio sulla opacità delle cose, per cui – ogni volta rinviandovi – si possa riuscire a non dire di più di quel che nel dirne tacciamo, è specificamente dedicato il contributo filosofico di Felice Ciro Papparo. Il testo parte per l’appunto dalla caratteristica più distintiva e allo stesso tempo più ingombrante che attiene alla problematicità del rapporto tra l’“Io” e il “mondo delle cose”, e quindi a quella problematicità che attiene al modo in cui il linguaggio, “organo-ostacolo”, rappresenta quel rapporto. E con l’ausilio di vari pensatori (Nietzsche e Valéry, Montaigne, Shakespeare e Bataille), si interroga sul senso da attribuire all’“opacità dell’oggettuale”, assumendolo come inevitabile espressione ma anche come “proiezione difensiva” dell’“umano, troppo umano” quando si volge alla “comprensione” del mondo di là da sé. E per questa via propone che c’è un’esperienza (quella della nudità – esperita, nella sua complessità, soprattutto nell’ambito erotico), che, qualora sia ben compresa e vissuta, permette di stabilire con la cosiddetta “opacità dell’oggettuale” non solo un diverso rapporto ma anche un tutt’altro significato di essa, così che diventerebbe ciò che accompagna, costeggia, impregna alla radice il “soggettivo mondo proprio”.Intorno alla chiarificazione del concetto di materia cui la dimensione opaca e resistente dell’essere-un-corpo-vivente rimanda, il fascicolo offre un’incursione nell’ambito della storia della filosofia antica, dove Martino Rossi Monti, riflette sull’ostilità, tipica del platonismo e dei suoi molteplici eredi, verso il mondo sensibile e il corpo. Dopo aver preso in esame alcuni aspetti del pensiero di Platone riguardo all’anima e il modo nel quale furono recepiti in alcuni testi filosofici e religiosi scritti tra il I secolo a.C. e il III d.C., con particolare attenzione alle Enneadi di Plotino, il saggio rileva però come a quella attribuzione negativa si sia intrecciata anche una attribuzione positiva, evidenziando che da tali intrecci sono comunque sorte tensioni e aporie ancora irrisolte.
  5. La nozione di opacità dell’oggettuale può essere declinata in ambito estetico, e per questa via affrontata nell’estetica dell’architettura. È qui che si muove il contributo di Elisabetta Di Stefano su opacità e trasparenza dei materiali in uso rispettivamente nella dimora ottocentesca e in quella modernista del xx secolo: la prima, fatta di elementi opachi e piena di pesanti velluti, che esprime l’idea, da un lato, del calore e dall’altro, della tattilità; la seconda, orientata verso un’estetica prevalentemente visiva, dove pareti di vetro aboliscono ogni barriera tra dentro e fuori, tra interno ed esterno. Fino al vero e proprio movimento dialettico tra opacità/trasparenza che si viene a configurare nella casa ipertecnologica del Terzo millennio. Ma la nozione di opacità è possibile svilupparla anche in ambito letterario, come qui fa Antonino Trizzino, rileggendo la tradizione dell’“uomo segreto” inaugurata da Herman Melville nella letteratura americana, un genere che poi riprenderà corpo nella cultura mitteleuropea con autori come Robert Walser e Franz Kafka: tradizioni che hanno dato luogo a delle lunghe metafore dove il destino dell’uomo moderno sarebbe quello di un essere che vive nel mondo senza mai però appartenervi interamente.
  6. Il fascicolo, in chiusura, riprende il tema dell’opacità in ambito filosofico, assumendolo come quella fondamentale indeterminazione che come tale diventa un fattore decisivo nell’obbligarci a pensare ogni irrigidimento cui sono destinati i nostri saperi: un pensare che consente di assumere criticamente i vari saperi costituiti. A questo riguardo, Ubaldo Fadini, individuando nel motivo della stupidità in Deleuze il motore della articolazione di una serie di coppie di opposti concettuali, invita a riprendere (à la Musil) il problema della stupidità come questione del rapporto di essa con il pensare, considerandolo oltremodo rilevante per la sua portata critica e per la capacità di aggirare l’eventuale cristallizzarsi della ricerca.

Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri

 

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