13/1996
ANCORA LA PSICOPATOLOGIA?

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NOTA EDITORIALE/Arnaldo Ballerini e Andrea Ballerini, “Affetti e delirio”/Gaetano Benedetti, “Intenzionalità psicoterapeutica”/Eugenio Borgna, “C’è ancora un senso nella psicopatologia?”/Bruno Callieri, “Inquadramento antropologico dell’esperienza d’incontro con lo psicotico”/Giacomo Calvi e Lorenzo Calvi, “Nora: un’immagine letteraria dell’esaltazione”/Eleonora D’Agostino e Mario Trevi, “Psicopatologia e psicoterapia”/Luciano Del Pistoia, “Psicopatologia: realtà di un mito”/Giovanni Cazzetti, “La perdita del sentimento del sé. Tra psicopatologia fenomenologica e psicoanalisi”/Fausto Petrella, “Sulla psicopatologia: caute riflessioni di uno psichiatra che non disdegna la psicoanalisi, di uno psicoanalista che non disdegna la psicopatologia”/Mario Rossi Monti e Giovanni Stanghellini, “Nosografia e psicopatologia: un matrimonio impossibile?”/MATERIALI/Werner Janzarik, “La crisi della psicopatologia”

 

Relativamente indipendente dalla psichiatria e quindi dalla medicina cui del tutto apparteneva nell’Ottocento, la psicopatologia è attualmente una disciplina che risulta variamente collegata alla psicologia sin da quando quest’ultima ha perduto l’impronta filosofico-metafisica che la contraddistingueva. Proprio in connessione con una psicologia a carattere dinamico (e cioè con una psicologia che sia in grado di pensare i saperi che la costituiscono) e con il pensare filosofico che mai si traduce in una filosofia chiusa nella sua sistematica, la psicopatologia si costituisce come premessa della pratica psicoterapeutica. Essa ha genericamente per oggetto il fenomeno psicopatologico e il funzionamento patologico dell’attività psichica (e quindi le diverse malattie e i differenti insiemi di disturbi del comportamento), col fine specifico di individuarne, in una prospettiva sistematica aperta, le specifiche cause e quindi i particolari “meccanismi” attraverso cui il soggetto elabora le proprie esperienze e mette in atto determinati comportamenti. In questo senso le ricerche si sono differenziate da quelle della psichiatria organicistica, non essendo più rivolte al reperimento delle cause nell’organismo e alla costituzione di tecniche per l’eliminazione dei sintomi. Le indagini si sono pertanto orientate all’osservazione di quelle esperienze e di quei comportamenti che a livello collettivo sono intesi come anormali e quindi più fondamentalmente come soggettivi. Sorto attraverso la cultura europea, il pensiero psicopatologico è stato poi travasato negli Stati Uniti, ricevendo una particolare torsione sul piano dell’oggetto e dei metodi. Difatti il campo degli studi della psicopatologia nordamericana è divenuto quello del comportamento oggettivo (anziché quello “vissuto”), e il sapere che ne è derivato, non ha fondamentalmente distinto l’oggetto della conoscenza psicopatologica dalla rappresentazione che di quell’oggetto viene data attraverso ogni sistematizzazione psicopatologica: e cioè la psicopatologia nord-americana ha finito con l’obliare i caratteri rappresentativi (e quindi i fattori antropologici e storici che vivono attraverso gli individui e i loro valori collettivi) che inevitabilmente entrano a costituire un oggetto nel momento che di esso è dato un sapere generale. Sicché non ha posto in luce i problemi che insorgono tra un oggetto già rappresentato da quei saperi e il fenomeno che invece viene, per così dire, indagato nell’incontro psicopatologico. Proprio lasciando impensato tutto questo, la psicopatologia americana si è volta a osservare i criteri distintivi del comportamento patologico da quello normale, ipotizzando tra loro un criterio di continuità, per cui il primo è stato inteso come un’esasperazione del secondo. E in questo senso essa si è almeno distinta dalla tradizione psichiatrica secondo cui tali differenze non avevano un carattere quantitativo ma qualitativo.

Varie sono le influenze di pensiero e differenti sono le pratiche cliniche che hanno contribuito, nel tempo, alla costituzione della psicopatologia, per cui mobili risultano i confini e complessa risulta l’ articolazione interna (anche rispetto alle differenti aree geografiche in cui essa viene ad esercitarsi). Schematicamente si può dire che all’istituirsi come disciplina distinta ma sempre, in vario modo, confinante con la psichiatria, con la psicologia e con la psicoterapia, hanno contribuito almeno sei prospettive, e precisamente: l° la teoria dei livelli di organizzazione psichica ipotizzata da ].H. Jackson; 2° la teoria psicoanalitica, non in quanto sapere del profondo ma in quanto psicologia dinamica; 3° la teoria e la pratica della psicologia analitica laddove essa riflette sul processo della comprensione psicologica dei fenomeni psicopatologici, proponendo fondamentalmente un arco della comprensione psicologica del fenomeno psicopatologico che si articola attraverso (e nello stesso tempo configura) un momento riduttivo e un momento costruttivo; 4° la riflessione sul metodo e sui fondamenti dell’intendere psicopatologico inaugurata da K. Jaspers; 5° l’analisi di L. Binswanger intorno ai progetti fondamentali dell’esistenza attraverso cui si costituiscono un certo uomo e un certo mondo; 6° la proposta attuata da E. Minkowski di un vero incontro con il fatto pato-psichico vissuto nella temporalità.

1° Dalla teoria jacksoniana, ripresa dalla scuola psichiatrica francese di Th. Ribot e dai cosiddetti “neo-jacksoniani” quali C. von Monakow e R. Morgue, e successivamente da H. Ey e J. Rouart, la psicopatologia ha tratto almeno due elementi fondamentali, e precisamente: a) il modello interpretativo del funzionamento normale e patologico del sistema nervoso; b) l’interpretazione della malattia mentale come «regressione» e «dissoluzione».

Come si sa nel pensiero filosofico non si è potuto non riflettere sul fatto che il termine “patologico” e l’antinomo “non patologico” furono usati nel 1787 da Kant per designare, rispettivamente, il carattere “inferiore” e quello “superiore” che concernono e, insieme, costituiscono i due modi in cui fondamentalmente si dà la nostra facoltà di desiderare, e quindi è qualificata come superiore e non patologica la facoltà della cosiddetta “ragione pratica” nel desiderare indipendentemente da qualsivoglia inclinazione sensibile. E la stessa filosofia non ha potuto non ripensare anche il fatto che, venti anni dopo queste considerazioni di Kant, G. Bentham, riferendosi alle due fondamentali alternative che si danno negli atti e atteggiamenti di differenti figure quali quelle del moralista e del legislatore, le chiamò con il termine “patologia” e con quello di “dinamica”, e più precisamente: con il primo egli nominò la considerazione intorno ai moventi sensibili delle nostre condotte e la classificazione di questi ultimi (e quindi la sensibilità passiva e la sua chiusura in una teoria), e con il secondo egli nominò, invece, l’uso di quegli stessi moventi nella determinazione di una condotta umana che fosse in vista della massima felicità possibile.

Proprio i termini “inferiore” e “superiore”, seppure con significati differenti da quelli proposti dalla filosofia, sono presenti come elementi preliminari di quella psicopatologia che tendeva ad affrancarsi dalla psichiatria. Esplicitamente fu la teoria psicopatologica dei livelli di organizzazione mentale di J .H. Jackson quella che considerò quanto le funzioni psichiche evolvono a partire da quelle inferiori (o automatiche e, in quanto tali, più semplici e più organizzate) a quelle superiori (o volontarie e, in quanto tali, più complesse e meno organizzate). Pertanto la malattia della mente diviene, da un lato, il mostrarsi degli elementi basilari della organizzazione mentale superiore, e, dall’altro, il darsi di quest’ultimi come capacità, pur nella disarmonia per l’appunto prodottasi attraverso la scomposizione patologica, di resistere meglio agli eventi morbosi stessi.

2° La psicopatologia deriva dalla psicoanalisi in quanto psicologia dinamica, almeno la seguente serie di nozioni: a) la nozione di causalità genetica: e cioè la spiegazione del comportamento patologico dell’adulto in base alle sue esperienze infantili; b) la nozione di conflitto psichico; c) la nozione di transfert. Come sappiamo la teoria dell’apparato psichico di S. Freud riprende nella sua psicopatologia dinamica i termini di “inferiore” e “superiore” della filosofia, designando la coscienza come formazione psichica superiore e l’inconscio come formazione psichica inferiore, e ciò sia sul piano della temporalità che su quello della topologia psichica stessa. Sicché, agli occhi della teoria psicoanalitica, il sintomo psicopatologico rinviando come segno allo stato inferiore e antecedente della psiche, si rivela come effetto di una causalità produttiva: e cioè come causa storicodinamica della condizione in cui la coscienza viene a ritrovarsi.

3° Attraverso la teoria e la pratica della psicologia analitica junghiana la psicopatologia riflette sul processo della comprensione psicologica dei fenomeni psicopatologici. Due sono le nozioni che fondamentalmente conducono all’intendere psico(pato)logico, e precisamente: a) la nozione di spiegazione psicologica; b) la nozione di metodo costruttivo nell’analisi. In quanto la prima nozione fa riferimento ai saperi istituiti e al loro uso umano, e la seconda fa riferimento al pensare i procedimenti attraverso cui quegli stessi saperi si sono costituiti, entrambe le nozioni sono intese come momenti del processo comprensivo della psicologia che, per l’appunto, si richiamano nell’esercizio di quest’ultima.

  1. a) Con il primo termine si indica ogni procedimento che nei confronti, non dell’essere, ma del rappresentarsi di una cosa e di una persona, oppure nei confronti della rappresentazione di un evento e di una situazione, tende a determinare il loro perché: e cioè ha da renderli chiari e accessibili all’intendimento -eliminando eventuali difficoltà e conflitti dell’intelletto stesso. Attraverso questo procedimento, che è una delle due tappe del processo interpretativo-comprensivo, qualsivoglia rappresentazione psichica viene incontrata come qualcosa di compiuto e di divenuto e non nel suo continuo divenire. Sicché un tale procedimento, nel suo assurgere a metodo, incontra i fenomeni come oggetti, ossia come essi si danno attraverso i saperi e le conoscenze che in vario modo si sono consolidati nella scienza e nello stesso processo scientifico (C. G. Jung, Il contenuto della psicosi [1908/1914], trad. it., in Opere, 3, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 187 e sgg.). In questo senso la determinazione del perché di una determinata configurazione di sé e del mondo, evidenzia essenzialmente i principi generali con cui la stessa psicologia la approssima: e cioè la spiegazione psicologica è l’espressione di un giudizio che è ortodosso rispetto a una specifica dottrina. E perciò essa è un pregiudizio o una concezione preconcetta che, nel suo positivo darsi, istruisce, innanzitutto, rispetto all’adesione, più o meno critica, a una determinata verità psicologica. Ma per l’obliare tutto ciò e quindi per la pretesa di mostrarsi nella sua validità oggettiva e non nella sua validità oggettiva tradizionalmente assunta (stante la sua implicita richiesta di essere accolta come una verità assoluta e non relativa), la spiegazione psicologica risulta applicata secondo il criterio dell’ovvietà. E proprio per questo, una tale spiegazione, acriticamente assunta, tende a svolgere una funzione suggestiva e non quella che più le compete in quanto fondamento per un possibile dialogo, innanzitutto, con i canoni collettivi di quella specifica comunità scientifica cui essa, partecipandovi, ogni volta riconfigura (C.G. Jung, L’applicabilità pratica dell’analisi dei sogni [1934], trad. it., in Opere, v. 16, Boringhieri, Torino, 1981, pp. 157 e sg.).
  2. b) L’espressione “metodo costruttivo” è utilizzata invece per indicare l’altra modalità fondamentale di intendere il materiale psichico, secondo cui quest’ultimo è una configurazione psichica nuova, relativamente a quelle precedentemente costituitesi nel processo cognitivo e affettivo. Pertanto la coscienza del soggetto e la stessa psicologia possono fare riferimento al materiale dell’inconscio come a ciò di cui esse ancora non sanno. Proprio per queste considerazioni il metodo costruttivo veicola caratteri opposti e complementari rispetto a quelli del metodo riduttivo o causale e quindi rispetto al metodo della spiegazione psicologica, che, riconducendo il materiale psichico a ciò che è già noto e quindi alle interpretazioni già installatesi nel sapere psicologico, gode invece del privilegio della condivisibilità, e cioè: i prodotti psichici e innanzitutto quelli dell’inconscio, attraverso il metodo riduttivo vengono consegnati ai saperi della psicologia, mentre, attraverso il metodo costruttivo, essi – in quanto ciò di cui la psicologia sa soltanto di non sapere – vengono lasciati da pensare. Abitando essenzialmente il luogo e i modi dell’ulteriorità, il metodo costruttivo, detto anche prospettico o teleologico, inaugura in psicoterapia una proposta che consiste nell’interrogazione continua del soggetto e degli strumenti e dei metodi che si trova dinnanzi. E ciò vale per la relazione tra lo psicoterapeuta e la persona in psicoterapia, ma anche per la relazione tra la coscienza e l’inconscio di costoro. Sicché, con il metodo costruttivo, si mettono tra parentesi le modalità di ogni psicologia della risposta che fondamentalmente implica quel sapere di già, che è tipico, per l’appunto, del metodo riduttivo. C’è però da precisare che la messa tra parentesi o sospensione del giudizio formulato rispetto ai saperi già costituiti, avviene in una forma speciale, in quanto viene suggerito che una tale sospensione è fondamentalmente finalizzata all’interrogazione di quegli stessi saperi (dominanti nei canoni collettivi della scienza e della coscienza) attraverso cui già sussiste una determinata immagine o rappresentazione della realtà. Proprio perciò, al metodo costruttivo è inerente una dimensione critica dell’esistente e un utilizzo altrettanto critico dei modelli attraverso cui l’esistente stesso si dà sul piano delle rappresentazioni mentali: e cioè comporta la considerazione secondo cui ciò che, ogni volta, chiamiamo “realtà” (e che, più precisamente, è la sua rappresentazione) è ciò che viene ovviamente inteso, proprio perché si è installata (in vari modi) la dominanza di determinati modelli di agire, di sentire e di interpretare. Con queste considerazioni si comprende che l’espressione introdotta da Jung fa riferimento non al materiale in sé, ma al modo di intenderlo, e precisamente all’intenderlo come anticipazione degli sviluppi possibili della personalità e della situazione in cui esso si manifesta.

4° Attraverso Jaspers la psicopatologia è fondamentalmente osservazione dei sintomi e, nel contempo, osservazione dello stesso metodo osservativo e degli elementi che in esso intervengono. Pertanto essa consiste essenzialmente in una riflessione intorno all’intendere psicopatologico e quindi in un pensare i saperi che la stessa psicopatologia produce e le relazioni tra i differenti modi di sapere che essa dispiega. Ne sono classici esempi: la distinzione che viene fatta nella Psicopatologia generale tra la nozione di “spiegazione” e quella di “comprensione”, e il concetto di circolo ermeneutico del processo della comprensione stessa. Quest’ultimo riguarda, da un lato, il mutuo rinvio tra il comprendere “statico” («l’attualizzazione di stati psichici e l’aggettivazione di qualità psichiche») e il comprendere “genetico” («l’immedesimarsi nell’altro, il comprendere le relazioni psichiche»), e, dall’altro, l’arricchirsi di ciascuno dei due attraverso l’altro – pur nel loro rimanere costantemente distinti. In questo senso è focalizzata la relazione tra il medico e il paziente, considerandola come il momento privilegiato di una circolarità comprendente che, già da sola, costituisce la vera esperienza psicopatologica, e cioè: a) l’esperire quei tre elementi co-essenziali che sono: «l’inquietudine dell’animo, il movimento, la relazione»;b) l’intenderli come parti e il porli in relazione tra loro (mai a partire, heghelianamente, da un tutto già dato, bensì rinvianti ad un tutto che li possa comprendere); c) il venirsi- conseguentemente e parallelamente- a configurare, all’interno di quella situazione, una totalità (che di quelle parti non è, meccanicisticamente, la somma); d) la possibilità – infine – che una simile totalità possa ulteriormente rischiarare i cosiddetti fatti particolari che all’inizio (si fa per dire) erano stati esperiti. Sicché la stessa vita psichica e la comprensione di quest’ultima e degli aspetti psicopatologici, non si darebbero mai definitivamente, bensì temporalmente, e quindi aperti all’ulteriorità: e cioè anche quella totalità che pure venisse a configurarsi nell’esercizio della psicopatologia, manterrebbe una forma temporale, e quindi il carattere di una strutturazione che è stata data nella processualità circolare dell’intendere psico(pato)logico, per cui a quest’ultimo, ancora circolarmente, rinvia. In altre parole, con la psicopatologia jaspersiana viene indicata la ricerca non di una norma psicopatologica, ma di un senso unitario dei modi in cui il paziente viene all’espressione. E proprio rispetto al fatto che la molteplicità delle manifestazioni psicopatologiche producano o non producano una tale unità di senso, Jaspers distingue gli atteggiamenti e i comportamenti «comprensibili» da quelli «incomprensibili». Ma poiché è inteso che l’incomprensibilità si rivela all’interno del processo della comprensione, essa non costituirebbe la fine del processo comprensivo bensì un rinvio a quest’ultimo e quindi la possibilità di un suo ri-inizio: e cioè con il configurarsi dell’incomprensibilità si dà l’urto della comprensione con i suoi stessi limiti e attraverso quest’ultimo si dà, ancora e di rimbalzo, un punto di partenza per una possibile conoscenza (rispetto all’«esistere così» del paziente, si costituisce una esistenza possibile, e, per un altro verso, nello stesso «essere così» della coscienza si costituisce una zona psichica extracosciente di cui non è dato un sapere e che risulta tutta da pensare).

5° Attraverso Binswanger la psicopatologia perviene all’analisi dei momenti costitutivi della temporalità, della spazialità, dei modi del soggetto di stare in relazione con gli oggetti, e quindi con le persone e con le cose. Più precisamente, la psicopatologia, nell’essere fondamentalmente fenomenologia, guarda tali momenti come l’istituirsi di funzioni attraverso cui, simultaneamente, si costituisce una certa presenza dell’uomo, e li rileva come modi di essere-nel-mondo (e quindi come modi di progettare sé e il mondo), anziché come carenze o eccessi (e quindi come disfunzioni rispetto a quadri nosologici precostituiti). Sicché la psichiatria, nel suo farsi tradizione, viene invitata a riflettere, innanzitutto, sul carattere astratto e ideale delle proprie distinzioni gnoseologiche e in particolare delle distinzioni attraverso cui si danno l’«anormale» e il «normale», e a riflettere, secondariamente, sia sul carattere di ovvietà delle differenze che essa produce, sia sull’inefficacia pratica di privilegiare, soltanto secondo il buon senso, il mondo del «sano» rispetto a quello del «malato». Per questa via, Binswanger tenta di condurre la psicopatologia oltre le linee metodiche tracciate, da una parte, dall’idealismo filosofico, e, dall’altro, dal positivismo scientifico, sostenendo che le leggi dell’ alienazione mentale hanno il limite di non potere essere spiegate secondo il causalismo del metodo scientifico di matrice ottocentesca, e sostenendo, ciononostante, che la stessa malattia mentale può essere compresa accedendo a quelle particolari condizioni che sono le forme trascendentali dell’esperienza (che si danno insieme alle specifiche costruzioni che ciascuno uomo fa di sé e del mondo). Attraverso queste considerazioni sulla psicopatologia e sulla psichiatria, la pratica psicoterapeutica che Binswanger indica, risulta un’opera di ricerca del senso complessivo delle attuali esperienze vissute dall’individuo. Quel che si dà sotto gli occhi e alle orecchie dello psicoterapeuta non deve essere sospettato (e quindi ridotto a un “null’altro che questo”), né colto nelle sue contraddizioni, né, tanto meno, conosciuto diacronicamente o orizzontalmente. E ciò perché qualunque raccolta longitudinale di dati e di fatti empirici, anche la più completa possibile, è, in partenza, condannata alla lacunosità e rivolta esclusivamente alla riconferma del nostro sapere nosografico, per cui la pratica psicoterapeutica che ne discende sarà, per così dire, riabilitativa, e, fondamentalmente rieducativa: e cioè una riassunzione empirica di quei comportamenti osservati non può che rinviarci, da un lato, alla lettura dell’Io empirico di quell’individuo, e, dall’altro, ad una possibile deduzione e spiegazione dell’”essere così” attraverso la descrittiva psicopatologica che già possediamo; e quindi, e ancora più fondamentalmente, può rinviarci soltanto (anche se non è poco) ad una gestione empirica di quell’individuo o di quella figura storica. Se questa è la pars destruens del discorso binswangeriano, la pars costruens è rivolta a dire che quel che si dà davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie, ma anche quel che si dà – contemporaneamente– nella nostra interiorità (e quindi si offre alla nostra intuizione), va innanzitutto “lasciato essere”. E proprio la possibilità di dare uno spazio al qualcos’altro da noi (per l’appunto, difficile da tollerare dalla tradizione che abitiamo, e quindi dalla nostra coscienza collettiva e dalla nostra stessa scienza psicopatologica), avrebbe il fine di far sussistere quell’attimo attraverso cui quel certo comportamento gnoseologico o pratico possa dispiegarsi pienamente, per intuire il progetto di esistenza che l’accompagna. In questo senso si darebbe una visione sincronica o verticale del fatto e del non fatto, ma anche del gesto corporeo che veramente li costituisce nel tempo e nello spazio. Tale modalità di stare in psicoterapia permetterebbe non soltanto la configurazione dei segni dell’anima malata e sofferente, ma anche del disegno dell’esistenza che il soggetto offre di sé e del mondo. Sicché questa vera presenza costituirebbe un Io che anziché avere lo statuto dell’empiria avrebbe quello della trascendentalità: e cioè quell’umana presenza pur nel rimanere tale quale è (e forse proprio perché la si lascia essere morfologicamente tale), aprirebbe ad un altro da sé (e quell’altro da sé – che proprio attraverso quella presenza “salta fuori” – avrebbe il carattere della possibilità).

6° Con E. Minkowski la psicopatologia assume come oggetto il fatto psicopatico come fenomeno vissuto nella temporalità e quindi impone allo stesso esperto in psicopatologia uno stare davanti a quel fenomeno senza, in alcun modo, aggirarlo: e cioè non indietreggiandovi alla astratta ricerca delle cause (o di un “prima”) né avanzandolo alla ricerca delle conseguenze (o di un “dopo”). Con Minkowski, la psicopatologia tenta pertanto di comprendere il senso del fenomeno psicopatologico nel momento vivo in cui esso si dà e quindi nel simultaneo e altrettanto vivo risuonare di esso nell’interiorità dello psicopatologo. Si tratta specificamente di costituire una visione differente da quella psichiatrica per quanto attiene almeno alla relazione che si istituisce tra intuizione e aspetto temporale della vita. E, più in generale, si tratta di introdurre delle considerazioni psicopatologiche che perdano il carattere generale e astratto che avrebbero come categorie logiche, e che, invece, mantengano lo specifico carattere dei modi di vivere e sentire qualsivoglia rapporto (e anche quello temporale) dell’uomo con il mondo. Sicché, incatenate «nel tempo», le stesse «manifestazioni esteriori e ciò che esse esteriorizzano» nel cosiddetto “malato”, non sono più da intendere come esaustive della vita mentale in generale, ma, intanto, produttive di orientamenti e tendenze che – come scrisse Minkowski (“La psychopathologie: son orientation, ses tendences”, in «L’évolution psychiatrique», 3, 1937, p. 18) – costituiscono «l’analisi fenomenologica della vita-tempo», e ciò fino al punto che da esse la psicopatologia stessa possa, da un lato, trarre la sua «ispirazione», e, dall’altro, essere «messa in guardia» dal voler costituire «qualsivoglia forma che cerchi di glissare l’elemento “nel tempo”». Ancora più fondamentalmente, alla psicopatologia è proposta non una azione interpretativa né riduttiva, ma un’opera di traduzione di un mondo in un altro, e quindi una traduzione fedele del mondo del paziente nel mondo autentico del medico: e cioè per lo psicopatologo non è più in gioco un acritico o “spensierato” riferire il mondo del paziente alla normalità e alla verità – perché questeultime ritornerebbero a essere categorie generali e astratte, coincidenti spesso (e ovviamente) con i saperi della tradizione cui costui appartiene in quanto membro di una specifica comunità scientifica.

Paolo Francesco Pieri

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