Recensione su «Medicina & Storia»

La rivista «Medicina & Storia» [Anno XVI / 9-10, n.s. / 2016, ISSN (print) 1722-2206 – ETS] ha così recensito il fascicolo di atque 18 n.s. –  anno 2016:

 

Quando «atque» nasce nel 1990 è una rivista che sta in una mano, un formato inedito per un semestrale che, nel sottotitolo, si dichiara costruito con «materiali tra filosofia e psicoterapia» e che è allo stesso tempo un oggetto tascabile e un’invenzione mentale, un arduo incontro fra tangibilità e astrazione. Dal 1990 al 2004 «atque» cambia colore di copertina a ogni uscita, coprendo quasi tutto lo spettro visibile; il lettore attento ai dati percettivi delle facciate, e alle loro promesse, si trova davanti a una piccola enciclopedia magica dove si può entrare e uscire da qualsiasi parte, magari con la sensazione di smarrimento circolare di una porta girevole. Da oltre venticinque anni «atque» propone temi che attengono criticamente alla psicologia, alla psicoanalisi, alla psichiatria, alla psicoterapia e con queste, alla filosofia, ma anche ad altri ambiti più o meno confinanti e collegati da una certa congenialità: la letteratura, l’arte e l’estetica, la filosofia della mente, la linguistica, la matematica e la fisica, le neuroscienze, l’informatica.

Nel 2006 «atque» si rinnova, ma il programma resta quello di offrire al lettore un vero e proprio teatro delle idee; la rivista inaugura una nuova serie, cambia formato, veste grafica e copertina (ospite della collana “Il Tridente Campus” della casa editrice Moretti & Vitali), continuando ad affrontare questioni centrali che interessano il pensiero di filosofi, psicoterapeuti, psicoanalisti e quindi di tutti gli studiosi che intendano assumere criticamente le proprie tradizioni di ricerca. «C’è da dire a questo punto che, dalla sua fondazione, “atque” insegue non già l’attualità, bensì cerca di farne e averne esperienza, quell’esperienza che, con Walter Benjamin, si trova in quel continuo andirivieni tra tempi e “infratempi”, ovvero tra momenti di adesione alla vita e momenti di pausa, dove la stessa vita che ancora si svolge può davvero essere rivisitata e compresa. È dentro l’esperienza di questi “passaggi” o di queste “soglie”, cui la stessa scelta del titolo rinvia, che “atque” si trova ad affrontare, attraverso fascicoli monografici, questioni centrali che attraversano (e costituiscono) il pensiero degli psicoterapeuti e dei filosofi».

«Atque», fondata e diretta da Paolo Francesco Pieri, si è sempre mantenuta libera da qualsiasi vincolo (e unzione) istituzionale, accademica e non accademica: «una tale scelta costituisce un’altra sua specificità non marginale – con tutti i potenziali vantaggi ma non senza quegli oneri che materialmente le discendono». Dal 2015 «atque» continua a uscire in formato cartaceo da Moretti & Vitali, ma gli articoli contenuti in tutti i fascicoli dal 1990 – esclusi quelli degli ultimi due anni – sono ora leggibili on-line sul sito della rivista (www.atquerivista.it).

L’ultimo fascicolo di «atque», uscito a giugno del 2016 con il titolo L’opacità dell’oggettuale, riflette «sull’intrinseca, originaria e fondamentalmente positiva, opacità del reale. Ovvero sul carattere di opacità e insieme di concretezza delle cose, delle persone, degli eventi a cui, d’altronde, varie pratiche di studio e riflessione sembrano ormai rinviare: dalla percezione all’attenzione, dal darsi del dentro e del fuori, alla relazione tra mente e corpo e tra soggetto e oggetto». I curatori di questo numero, Fabrizio Desideri e Paolo Francesco Pieri, sanno che aver scoperto un problema è non meno apprezzabile (e più utile) dell’aver scoperto una soluzione e si pongono tre domande programmatiche: «a) riusciamo, e come, ad abitare le cose che ci sono (che si danno ai nostri occhi) ma che, come tali, si mostrano nei loro caratteri di opacità positiva e concretezza piena? b) come possono procedere i nostri discorsi senza mettere in scena un’eterna vittoria della mediazione linguistica e, più in generale, simbolica sulla opacità delle cose, per cui – ogni volta rinviandovi – riescano a non dire di più di quel che nel loro dire tacciono? c) si può infine affermare che proprio resistendo nella loro opacità, le cose sono ciò che danno luogo al patico, per cui – esplodendo a livello esperienziale – eccedono la nostra intelligenza sia rivelandone criticamente i suoi tratti essenziali, sia tendendo a oltrepassarla, e quindi ad aprirla a una haecceitas?».

Il contributo che apre il volume, Opacità del mondo e conoscenza, affronta il tema dell’opacità a partire dai nostri processi di conoscenza. Attraverso la definizione dei concetti di opacità e trasparenza, Giuseppe Vitiello riflette su alcuni aspetti strutturali dei processi con cui si osservano le interazioni in fisica evidenziando l’esistenza di regioni di opacità intrinseca; l’autore estende tali riflessioni, da un lato, agli aspetti della nostra vita di relazione con il mondo, e dall’altro, all’analisi di aspetti funzionali della dinamica cerebrale relativi al ciclo di azione-percezione. La nostra attività mentale è così descritta come intrinsecamente legata alla caratteristica del cervello di essere un sistema aperto.

L’apparire della cosa, attraverso il fenomeno della resistenza, determina un rapporto complesso tra percezione e pensiero. Luca Taddio, nel suo contributo Sulla resistenza delle cose, analizza questo rapporto per chiarire in cosa consista la presunta indipendenza della percezione diretta rispetto all’attività di pensiero. L’indipendenza della dimensione fenomenica entro una matrice realista è garantita dal fatto che le variabili “dipendenti” e “indipendenti”, che costituiscono l’apparire del fenomeno, sono localizzate nel mondo, mentre l’emergere della realtà dipende da rapporti numerici che stabiliscono il senso di ciò che indichiamo come “realismo” o “razionalismo materiale”.

A partire dall’idea di un mondo esterno indipendente da noi (realismo del senso comune) – in quanto la presenza dell’oggetto come altro da noi ci si impone pre-intellettualmente in modo ineludibile – e dalla riflessione sulle nozioni di “percezione”, “realismo diretto”, “principio di relazionalità” e “principio di prossimalità”, Alfredo Paternoster difende, nel suo Percezione e resistenza dell’oggetto, la tesi secondo cui la migliore giustificazione del realismo richiede di sottoscrivere, in filosofia della percezione, il realismo diretto e si schiera a favore di una versione relazionale del realismo diretto.

Di fronte al tema dell’opacità del self, Massimo Marraffa, nel suo intervento Identità corporea e identità narrativa, avanza l’ipotesi che la forma più originaria di autocoscienza sia l’autocoscienza corporea, come capacità di costruire una rappresentazione analogica del proprio corpo assunto come un oggetto intero, al tempo stesso considerando questa rappresentazione come soggetto, ossia come fonte attiva della rappresentazione di sé. La coscienza del corpo come corpo proprio è necessaria per la costruzione dell’autocoscienza psicologica, e quindi dell’“identità narrativa”. Questa autodescrizione psicologica si fonda sull’autodescrizione corporea, sviluppandosi da questa in virtù di un intergioco – culturalmente modulato – fra mentalizzazione, memoria autobiografica e capacità sociocomunicative.

Ciò che più temono gli esseri umani è l’essere ridotti a cose, e a questo timore per le cose farebbe spesso da corollario l’apparentamento tra soggetto e linguaggio: la garanzia di essere un “soggetto” consiste nella capacità di dire di sé: “io”. In Divenire cosa, divenire corpo, Felice Cimatti prova a comprendere questa paura a partire dall’analisi della distinzione che Heidegger stabilisce tra essere umano e pietra, secondo cui Homo sapiens è un soggetto proprio perché non sarebbe una cosa. C’è una strettissima relazione fra soggettività e linguaggio da un lato, e il timore delle cose dall’altro. Al contrario, la psicoanalisi è il tentativo di dare un corpo al soggetto o, più paradossalmente, di liberare il corpo umano dalla parola, e, dunque, di consentire al soggetto umano di diventare un corpo, cioè una cosa.

Nel contributo di Augusto Iossa Fasano, Oggetti dentro i corpi. Ridefinire il post-umano, l’oggetto ausiliario esterno al corpo o protesi contribuisce a costruire l’identità psichica del soggetto. Se la protesi viene inserita all’interno del corpo aumentano i rischi per la stabilità e l’integrità psichica. Il Paradigma Bionico Protesico (pbp) si propone come modello per l’inquadramento antropologico e il trattamento dei soggetti a configurazione cyborg.

Alla domanda di come possano procedere i nostri discorsi senza mettere in scena un’eterna vittoria del linguaggio sull’opacità delle cose, per cui – ogni volta rinviandovi – si possa riuscire a non dire di più di quel che nel dirne tacciamo, è dedicato Un tocco di ri-guardo, il contributo filosofico di Felice Ciro Papparo. Il testo parte dalla caratteristica più distintiva e allo stesso tempo più ingombrante che attiene alla problematicità del rapporto tra l’“Io” e il “mondo delle cose”, e quindi a quella problematicità che attiene al modo in cui il linguaggio, “organo-ostacolo”, con un’espressione bergsoniana-jankélévitchiana, rappresenta quel rapporto. Con l’ausilio di vari pensatori (Nietzsche e Valéry, Montaigne, Shakespeare e soprattutto Bataille), il testo si interroga sul senso da attribuire all’“opacità dell’oggettuale”, assumendolo come inevitabile espressione ma anche come “proiezione difensiva” dell’“umano, troppo umano” quando si volge alla “comprensione” del mondo di là da sé. E per questa via indica un’esperienza (quella della nudità – esperita, nella sua complessità, soprattutto nell’ambito erotico) che, se ben compresa e vissuta, permette di stabilire con la cosiddetta “opacità dell’oggettuale” non solo un diverso rapporto ma anche un altro significato di essa, così che diventerebbe ciò che accompagna, costeggia, impregna alla radice il “soggettivo mondo proprio”.

Intorno alla chiarificazione del concetto di materia cui la dimensione opaca e resistente dell’essere-un-corpo-vivente rimanda, il fascicolo offre un’incursione nella storia della filosofia antica, Il carcere, la tomba, il fango. Sulla fortuna di alcune immagini da Platone all’età di Plotino; in queste pagine Martino Rossi Monti, riflette sull’ostilità, tipica del platonismo e dei suoi molteplici eredi, verso il mondo sensibile e il corpo. Dopo aver preso in esame alcuni aspetti del pensiero di Platone riguardo all’anima e al modo nel quale furono recepiti in alcuni testi filosofici e religiosi scritti tra il I secolo a.C. e il III d.C., con particolare attenzione alle Enneadi di Plotino, il saggio rileva però come a quella attribuzione negativa si sia intrecciata anche una attribuzione positiva, producendo tensioni e aporie ancora irrisolte.

La nozione di opacità dell’oggettuale coinvolge anche l’ambito estetico, e per questa via l’estetica dell’architettura. È qui che si muove il contributo di Elisabetta Di Stefano, Il vetro e il velluto. La casa tra opacità e trasparenza, su opacità e trasparenza dei materiali in uso rispettivamente nella dimora ottocentesca e in quella modernista del xx secolo: la prima, fatta di elementi opachi e piena di pesanti velluti, che esprime l’idea, da un lato, del calore e dall’altro, della tattilità; la seconda, orientata verso un’estetica prevalentemente visiva, dove pareti di vetro aboliscono ogni barriera fra dentro e fuori, tra interno ed esterno (nuova modalità dell’abitare che Walter Benjamin considera una «virtù rivoluzionaria»). Fino al vero e proprio movimento dialettico tra opacità e trasparenza che si configura nella casa ipertecnologica del terzo millennio.

Ma la nozione di opacità è declinabile anche in ambito letterario, come nel contributo di Antonino Trizzino, Bartleby o l’opacità. L’uomo segreto nella letteratura americana: qui l’autore rilegge la tradizione dell’“uomo segreto” inaugurata da Herman Melville e reinventata da Robert Walser e Franz Kafka. L’enigma dello scrivano che smette di scrivere ha sviato molti tentativi di decifrazione (tra cui quello di Deleuze). A Bartleby è legato un racconto di Nathaniel Hawthorne, Wakefield, in cui un marito lascia sua moglie e la sua vita passata, affitta una stanza nella strada accanto alla propria casa e lì si nasconde per vent’anni. Il racconto americano nasce con queste due storie e si dilata fino a includere il destino dell’uomo moderno, condannato a vivere nel mondo senza appartenere al mondo.

Il fascicolo si chiude con il contributo di Ubaldo Fadini, Il fattore opacità. Stupidità e indeterminazione in Gilles Deleuze, che riprende il tema dell’opacità in ambito filosofico e assume l’opacità come quella fondamentale indeterminazione che diventa un fattore decisivo nell’indurci a pensare l’irrigidimento cui sono destinati i nostri saperi: un pensare che consente di assumere criticamente i vari saperi costituiti. A questo riguardo, l’autore, individuando nel motivo della stupidità in Deleuze il motore dell’articolazione di una serie di coppie di opposti concettuali, invita a riprendere il fondamentale problema della stupidità come questione del suo rapporto con il pensare.

 

Antonino Trizzino

 

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