2 n.s./2007
PERCHÉ SI RIDE. UMORISMO, COMICITÀ, IRONIA.

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a cura di Paolo Francesco Pieri

 

PREFAZIONE/Paolo Francesco Pieri, “Umorismo e innovazione della conoscenza. La transizione dei codici simbolici e lo sconquasso nel corpo dei saperi”/PARTE PRIMA/Vladimir Jankélévitch, “L’umorismo è la rivincita dell’uomo debole”/Carlo Sini, “Umorismo alla lettera”/Enrico Ghidetti, “Verso una poetica dell’esistenza: L’umorismo di Pirandello”/Luca Lupo, “Il pozzo e la scala. L’umorismo etico di Wittgenstein”/PARTE SECONDA/Antonino Trizzino, “Morire dal ridere. Quattro figure del Comico”/Adriano Fabris, “Sul ridere in alcune prospettive religiose”/Antonello Sciacchitano, “Perché nella scienza non si piange e non si ride?”/PARTE TERZA/Mauro La Forgia, “Note su ironia, consapevolezza e processo conoscitivo”/Giuseppe Di Giacomo, “Ironia e romanzo”/Davide Sparti, “Tea for two. L’ironia nel jazz di Thelonious Monk”/DIALOGO con Vladimir Jankélévitch

 

[…] Attraverso quanto si è detto si perviene all’idea che il sistema psichico inconscio svolge una funzione fondamentalmente critica del sistema conscio, e che i suoi simboli, rivestendo l’intero processo mentale, hanno la funzione di dare da pensare i segni della realtà, ovvero quei segni che nel loro rappresentare stabilmente la realtà, configurano i nostri saperi certi e le verità su cui ci fondiamo.

Per questa loro funzione che implica non già il negare le conoscenze bensì il rimettere in azione il processo con cui le stesse conoscenze si sono costituite e installate nel sistema conscio, è possibile confermare che la nostra mente è il luogo di una continua transizione tra simboli. In questa teorizzazione il simbolo è caratterizzato dall’essere ciò che, mettendo in azione il pensiero non orientato, rimette in questione il pensiero orientato; ma ciò accade solo allorquando nella nostra mente i vari elementi del processo conoscitivo si trovano in una particolare condizione, che è così determinabile.

  1. Quando entrambi i sistemi, quello conscio dei segni e quello inconscio dei simboli: (a) non si arrogano il monopolio della verità, (b) sanno di non conoscere qual è la verità, (c) ammettono la non esistenza della verità, (d) situano la verità all’infinito.
  2. Quando i simboli del sistema inconscio si lasciano cogliere nel loro carattere paradossale, ma anche, per un certo verso, nebuloso ed evasivo.
  3. Quando tali simboli, per quanto non abbiano in sé niente di determinabile o localizzabile, sono colti non in assoluto ma nel posto che effettivamente occupano.
  4. Quando tali simboli che, va ricordato, si mostrano in un preciso e determinato momento del processo della conoscenza (3), e rivelano un carattere paradossale (2), non sono determinabili, alla Freud, in modo definitivo, e quindi interpretabili in modo aprioristico.

(Come si dirà. proprio perché il simbolo, non essendo un segno, è di non facile lettura, l’umorismo si distingue dal motto di spirito (Witz) dove, legato com’è al segno verbale, è la stessa parola che, in quanto segno, costituisce la chiave d’accesso all’interpretazione.)

  1. Quando il sistema conscio dei segni e quello inconscio dei simboli si danno come due poli equipollenti della psiche e quindi mostrano la simmetria che intercorre tra loro e il reciproco coinvolgimento.

In una tale condizione, dove non c’è supremazia di un sistema psichico sull’altro né tanto meno distanza o scissione reciproca, i segni e i simboli sono in grado di esporsi a vicenda, e ciascuno si rivolge all’altro innanzitutto applicando a sé ciò che richiede; per esempio, in questa riapertura del processo conoscitivo, i segni possono cogliersi come dei simboli che nella precedente chiusura conoscitiva del reale sono “morti” per dar luogo ad una sua indicazione certa (a una sua misurazione), e, di contro, i simboli, nella loro rinata vivacità, tendono ad attribuire al reale una nuova rappresentazione, ma attendono la misura che solo il sistema conscio è in grado di assegnare.

  1. Quando il movimento del processo della conoscenza sorto dalla necessità di rileggere il reale, attiva i simboli del sistema inconscio e, di contro, mette tra parentesi l’impianto categoriale di riferimento al reale, e quindi fa funzionare i segni attraverso un metodo non dogmatico.
  2. Quando il sistema conscio è innanzitutto, e continuamente, conscio di se stesso, e quindi nel proprio funzionamento può fare ogni volta riferimento a un meta-sistema che lo sovrasta.
  3. Quando i segni del sistema conscio si lasciano pensare come metafore, e in quanto tali contrassegnano sì il reale, ma lo fanno in modo sottile (non forte): nel loro essere un rivestimento contingente del reale e una comunicazione che la persona fa intorno

a che cos’è una cosa e che effetto le fa, i segni mantengono un carattere d’apertura agli altri, e ad altro ancora.

In questo senso possiamo ipotizzare che la mentalitalizzazione simbolica mostra una qualità umoristica, se si assume l’umorismo nell’accezione che ne dà Vladimir Jankélévitch.

Questo autore caratterizza, infatti, l’umorismo per il suo essere ciò che aiuta a pensare «le cose che un po’ sfuggono al pensiero», e che per il suo «rivestire l’intero pensiero» viene ad assumere una portata eminentemente «critica e filosofica».

Parallelamente a quello che si è detto intorno a ciò che accade nella mente durante il momento innovativo della conoscenza, l’umorismo per essere tale deve possedere, secondo l’autore, degli specifici caratteri che si possono ricapitolare così:

1° L’umorismo non può detenere la verità: l’umorista, egli scrive, «non pretende di avere il monopolio della verità». Per l’umorista «la verità non esiste, ovvero è situata all’infinito», e lo stesso umorismo «suggerisce discretamente che nessuno può arrogarsi questo monopolio». L’autore precisa che l’umorista è proprio per questo diverso dall’ironista, che, invece, conosce la verità: quest’ultimo seppure dica in modo indiretto il contrario, crede di detenere la verità.

2° L’umorismo è nebuloso ed evasivo, è «per sua natura impalpabile». Nell’umorismo «non c’è niente di determinabile, di palpabile o di localizzabile».

3° L’umorismo varia da un paese all’altro, per quanto sia sempre «in situazione».

4° Non essendo legato alla parola, l’umorismo è di non facile lettura: diverge proprio per ciò dal motto di spirito che invece è legato a una parola, la quale, ogni volta, «costituisce la chiave d’accesso» della sua comprensione.

5° L’umorismo è un atto che si rivolge a sé e che applica innanzitutto a sé ciò che fa valere sugli altri: in quanto si è pronti ad assumere una «mentalità umoristica», si scopre di essere coinvolti nel proprio discorso e si acquisisce fondamentalmente l’abitudine di «applicare a se stessi ciò che vale per gli altri».

6° L’umorismo che non ha in sé un sistema di riferimento e che sempre «butta in mare il sistema», comporta ogni volta «un polo che espone e la coscienza dell’altro». In quanto «non dogmatico» e solo in quanto tale, Socrate è «molto più umorista che ironista».

7° L’umorismo «dice eccetera…», «va fino all’orizzonte», ad un orizzonte che sta «di là da ogni limite assegnabile». Esso è propriamente questo «passaggio al limite». Presuppone soltanto una coscienza di sé ovvero «una coscienza molto acuta di sé, una sorta di metacoscienza di questa coscienza, e la metacoscienza di questa stessa metacoscienza… e così all’infinito»: vale a dire presuppone una coscienza della coscienza «il cui esponente è all’infinito»; e in quanto è «un orizzonte» e quindi il suo ideale è posto all’infinito, mostra un’apertura verso l’altro nei modi della «gentilezza», dell’«indulgenza» e perfino della «tenerezza». «L’umorismo è per sua natura indulgente» e «quando si è indulgenti, si è pronti a perdonare, a scusare, a comprendere», ad «ascoltare» e ad «accondiscendere». Quanto, quindi, l’umorista è «annessionista» tanto «l’ironista non ha considerazione dell’opinione dell’altro», «si burla di lui per sbalordirlo», e per ciò «non accondiscende neanche all’ascolto della voce dell’altro»; e quanto l’umorista è «leggero, gentile e umile», tanto l’ironista è «aggressivo, caustico e graffiante».

8° L’umorismo si fonda su «l’essere distaccati da sé», e quindi sul «non darsi troppa importanza», ma proprio il fatto che si accetta di non essere importanti rappresenta un modo per «mettersi in gioco» – per quanto in un modo «piccolo» e, se vogliamo, «non molto costoso».

Nell’umorismo accade un fenomeno paradossale che consente di vedere qualcosa sotto una luce differente e quindi di vederla altrimenti. Con riferimento a categorie di tipo gestaltico come quelle di figura e sfondo, le situazioni umoristiche potrebbero essere spiegate, alla Bateson, come comunicazioni umane in cui avviene improvvisamente sia una modificazione della figura, sia una ricostituzione dello sfondo, sia uno spostamento o un rovesciamento della situazione figura sfondo. Sarebbero, infatti, tali avvenimenti ad indurre anche il fruitore, in modo altrettanto improvviso, a configurare diversamente il modo di percepire, interpretare e conoscere le cose e d’interagire con queste, e quindi, fondamentalmente, a compiere – come accade nell’innovazione della conoscenza – una ristrutturazione epistemologica. Di contro, ma nello stesso senso, sarebbe privo d’umorismo chi non riuscendo a vedere altrimenti, continua a cogliere le cose in una cornice di riferimento già stabilita in partenza, mostrando, più specificamente, un deficit di prospettiva e di movimento prospettico: vale a dire mancando della capacità di pensare che proprio attraverso un certo punto di vista qualcosa si rappresenta in una certa maniera, e che modificando una tale prospettiva la stessa cosa può essere rappresentata altrimenti.

Seguendo l’accezione tradizionale, il comico può essere assunto come ciò che suscita il riso o la stessa possibilità di far ridere, riguardo al fatto che una tensione o una situazione di contrasto ragionevolmente non risolvibile (e quindi non risolvibile secondo il “sistema conscio”), raggiunge in modo imprevedibile e inaspettato una soluzione che per la stessa ragione (per i “segni” dello stesso sistema conscio) appariva sbagliata e per il piano estetico sin lì costituito, esteticamente “brutta”. In questo senso il comico sarebbe una via per prendere distanza dalle conoscenze già date, sia del mondo, sia degli altri che di noi stessi, e quindi sarebbe un qualcosa che provoca uno sconquasso del corpo delle nostre conoscenze intellettuali ed estetiche, oltre che del nostro corpo fisico.

Con le precisazioni fatte sul piano del processo cognitivo e affettivo, possiamo dire con Aristotele che il ridere è una proprietà che attiene esclusivamente all’uomo, che per ciò è in grado di prendere le distanze dal mondo, dagli altri e da se stesso; e che il ridicolo è «un errore o una bruttura» che però non reca «né sofferenza né danno», così come la maschera comica è «qualcosa di brutto e stravolto» ma «senza sofferenza».

Rispetto alla modalità “inaspettata” in cui nel comico accade la transizione dei codici simbolici, si può trovare anche una coincidenza con quanto afferma Hobbes quando correla il comico alla coscienza che l’uomo possiede della propria superiorità se questa superiorità, però, è intesa come coscienza della propria coscienza.

Assumendo l’intelletto come funzione psicologica razionale e quindi come pensare indirizzato, ma anche come insieme di segni del sistema conscio, mossi dal sistema inconscio, la nostra interpretazione del comico potrebbe pure combaciare con quella di Kant, quando riconduce il comico alla tensione verso qualcosa e alla sua inaspettata risoluzione in un nulla che pur non essendo qualcosa che rallegra l’intelletto, suscita per un istante vivacità: «In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa d’assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). Il riso è un’affezione che deriva da un’aspettazione tesa, la quale di un tratto si risolve in nulla. Proprio una simile risoluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l’intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità».

Con le distinzioni che abbiamo in precedenza fatto sul processo d’innovazione della conoscenza e quindi sulla transizione dei codici simbolici, possiamo pure aderire all’analisi che del comico fa Henry Bergson quando lo considera un’attesa di soluzione che è delusa dal momento che dà luogo ad una soluzione imprevista o sbagliata, giungendo a dire che il refrigerio comico è non soltanto l’effetto di una “sostituzione” dell’artificiale al naturale o di un’”applicazione” di qualcosa di meccanico al vivente (come quando il corpo fa pensare a un meccanismo o prende il sopravvento sull’anima, o quando una persona dà l’impressione di essere una cosa), ma anche quando una situazione può essere interpretata in due differenti modi, oppure quando un’espressione verbale comporta significati molteplici e quindi equivocabili.

Assumendo, come qui si fa, la nozione d’inconscio diversamente da Freud, la nostra analisi è vicina a quanto scrive Jean Baudrillard che considerando le cose da un punto di vista diverso da quello di Bergson (e dello stesso Freud) intende il comico, insieme al riso, come l’espressione non già di un risparmio bensì di una dissoluzione del senso, di una vera e propria implosione che per un attimo libera dal senso (che il sistema conscio dei segni ha assegnato). Nel riso che vale sempre nello scambio con gli altri, si riderebbe non già per la proliferazione del senso bensì per la reversibilità del senso e quindi intanto per il suo dar luogo al non senso di ciò che prima aveva senso. Egli scrive esattamente: «Là dove c’era qualcosa, non c’è più nulla – nemmeno un inconscio. Là dove c’era una qualsiasi finalità (sia pure inconscia) oppure un valore (sia pure rimosso), non c’è più niente. Il godimento è l’emorragia del valore, la disgregazione del codice, del logos repressivo. Nel comico è l’imperativo morale dei codici istituzionali (situazioni, ruoli, persone sociali) che è eliminato – nel Witz, è l’imperativo morale dello stesso principio d’identità delle parole, e del soggetto, che si annulla […].

Paolo Francesco Pieri

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