11 n.s./2012
PERVASIVITÀ DEL CONTATTO

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a cura di Anna Gianni, Roberto Manciocchi e Amedeo Ruberto

 

PREFAZIONE Paolo Francesco Pieri/INTRODUZIONE Anna Gianni, Roberto Manciocchi, Amedeo Ruberto/PARTE PRIMA – INTENZIONALITÀ, RELAZIONALITÀ, ESPERIENZA/Luca Vanzago, “Le relazioni naturali. Il relazionismo di Whitehead e il problema dell’intenzionalità”/Roberto Ferrari, Ricardo Pulido, “L’esperienza animale del contatto. zoo-fenomenologia e addestramento meditativo”/Anna Fusco di Ravello, “Il giro della prigione”/Amedeo Ruberto, “Dell’impossibilità del non essere in contatto. Contributo allo sviluppo della psicologia analitica”/PARTE SECONDA – CONTATTO SIMBOLICO, RIMANDO, ASSENZA/Enrico Castelli Gattinara, “Zero come simbolo: uno sconfinamento indeterminato”/Attilio Scarpellini, “L’impronta. Trattenere i corpi, toccare le immagini”/Roberto Manciocchi, “Pratiche del contatto, pratiche del contagio”/PARTE TERZA – QUALE CORPO PER IL CONTATTO/Roberto Diodato, “The touch beyond the screen”/Massimo Caci, “Contatto vs perdita del contatto. Per una antropologia dell’ambiente da Eugène Minkowsky a Gilles Deleuze”/Anna Gianni, “Andirivieni di contatti tra corpo e mente”

 

Viviamo un mondo dispiegato dal nostro linguaggio e le relative pratiche.

Facendo un elenco un po’ alla rinfusa, posso dire che nel mondo delle pratiche psicologiche e gli ambiti confinanti, la fanno attualmente da padroni termini e concetti come: ‘relazione’, ‘differenziazione’, ‘individuale’, ‘spiegazione’, ‘distanziazione’, ‘astratto’, ‘mediatezza’, ‘segno’, ‘aut-aut’, ‘mente’, ‘oggetto’, ‘conscio’, ‘sapere’, ‘confini’.

Come è facilmente intuibile, l’installarsi in medias res di parole e concettualizzazioni come queste, ha messo in ombra i relativi termini e concetti opposti, come: ‘integrazione’, ‘collettivo’, ‘comprensione’, ‘avvicinamento’, ‘concreto’, ‘immediatezza’, ‘simbolo’, ‘et-et’, ‘corpo’, ‘evento’, ‘inconscio’, ‘pensare’, ‘contatto’. Queste ultime parole, come ho detto, sono state messe in ombra, e come tali non si sono dissolte. Esse continuano a vivere per l’appunto nell’ombra: talora demonizzate, tal’altra mitizzate.

Compito di questo fascicolo di «atque» è indicare che la prima famiglia di parole esiste ed è efficacie soltanto insieme alla seconda.

Per ciò si dovranno cogliere i seguenti rispettivi apparentamenti: relazione e contatto, differenziazione e integrazione, individuale e collettivo, spiegazione e comprensione, distanziazione e avvicinamento, astratto e concreto, mediatezza e immediatezza, segno e simbolo, aut-aut e et-et, mente e corpo, oggetto e evento, conscio e inconscio, sapere e pensare, confini e contatto.

E ciò perché nel lavoro quotidiano e in quello clinico, la fenomenologia della vita – mentale e fisica – si dà veramente proprio per il costituirsi simultaneo di tali coppie di eventi e il poterli indicare; ma anche per l’esperienza della continua oscillazione del processo vivente tra queste “fasi” e il costante, necessario, rinvio dell’una all’altra, e insieme a questo per il dono che il sostare in ciascuna fase installa, e, di contro, per la catastrofe che il perdurare oltre misura in ciascuna di esse, evidenzia.

Paolo Francesco Pieri

 

 

Come in ogni altro numero di «Atque», anche qui proviamo a esplorare territori non consueti, aperti, in questo caso, dalla problematicità dell’essere-in-contatto.

 

l’esperienza del contatto come relazione. – Una qualsiasi definizione di “contatto” lo riduce all’avvicinamento di corpi (animati o non, reale o immaginaria) o lo astrae nel termine di “relazione”.

Ma se, in effetti, la relazione è figurativamente e concettualmente la migliore rappresentazione con cui possiamo avvicinare il “contatto”, balza subito in evidenza come il curioso e paradossale concretismo “dell’essere-in-contatto” si dissolva d’incanto “nell’essere-in-relazione”, nella misura in cui le due situazioni pur convergendo e al tempo stesso derivando da uno stesso fenomeno, ne danno anche versioni del tutto differenti.

All’immediatezza senso-percettiva del “contatto” che ne racconta l’illusione di una sorta di oggettività istantanea e conclusiva nella impenetrabilità dei corpi, si oppone la mediatezza riflessiva della “relazione” che ne abbatte la datità, ne vìola l’identità spazio-temporale e, mostrandone la sostanziale ipoteticità, restituisce alla speculazione il compito della interrogazione su “ciò che effettivamente accade” e del senso di ciò che “non si vede”. Si tratta di storie differenti e impossibili da tenere assieme: è come guardare le foglie di un albero oppure il vuoto tra esse, ed è come affermare che le foglie producono dei vuoti o che ne sono (forse) definite.

Scavallata allora la facile constatazione della secondarietà dell’interpretato rispetto al percepito e del percepito rispetto alla sensazione, sarà inevitabile accettare anche l’eterogeneità e la complessità anatomica e neurofisiologica della sensazione stessa: colori, linee, pendenze, volumi, misure, movimento e quant’altro occorre (per citare soltanto alcuni elementi costitutivi di un’immagine), corrispondono a un circuito complesso che recluta altre strutture complesse che, integrandosi con la rete ancor più complicata che sottende alla memoria, dà luogo – forse – a ciò che intendiamo come “percezione di un contatto”. E quindi, se ciò che percepiamo – ciò di cui riusciamo a divenire immediatamente coscienti – ha un’immediatezza alquanto strana per non dire francamente illusoria, essendo quanto meno terza nella costruzione dell’immagine o del fenomeno, che dir si voglia.

La distanza tra la nostra coscienza e i fattori che ne producono l’esperienza è sostanzialmente incommensurabile: pochi centimetri che, come le ere geologiche, descrivono decine di migliaia di anni di evoluzione e di successive complicazioni anatomiche.

Si capisce così come gli studi di Lyle sull’infinitesima temporalità che separa le relative scansioni cerebrali per determinare come la coscienza, di fatto, registri solo ex post quanto il cervello ha già deciso, abbiano suscitato allarmi metafisici e sentimenti di smarrimento rispetto alla supposta centralità dell’individuo e del suo io.

E tuttavia, il nostro percepito – almeno terzo in una verosimile catena gerarchico-evolutiva – entra di diritto nel circuito del senso di ciò che accade, in un rapporto certo non più dominante ma sicuramente e assolutamente solidale.

Per questo, il determinarsi del senso complessivo di un evento – e tutte le implicazioni pragmaticistiche che ne derivano – non sfugge alla sua interpretazione, in modo affatto indipendente dall’effettiva conoscenza e “percezione” dei fattori costitutivi che lo costruiscono. Un’interpretazione erronea ha così lo stesso valore costituivo dei fattori inconsci – esatti o meno – che hanno concorso a quell’illusione di immediatezza percettiva cui si accennava sopra. Ciò magari spiega come per tanto tempo, e probabilmente ancora adesso, abbiamo continuato a raccontarci verità ridicolmente improbabili che tuttavia condividiamo come quasi-assolute.

Quando poi un insieme di interpretazioni erronee si raccoglie sistematicamente in una teoria del mondo o dell’esperienza, convergiamo finalmente in oggetti “stabili e durevoli” che indubbiamente appagano una sicurezza ideologica di cui forse, non casualmente, abbiamo estremo desiderio e forse anche necessità.

Viceversa, la mancanza di una teoria – per quanto, a proprio rischio oppugnabile, contestabile, sostituibile – o ancor più di una capacità di teorizzare o condividerne i risultati, genera un universo instabile e fluttuante, privo di categorizzazioni spazio-temporali, senza limiti e senza storia, dove la sopravvivenza è delegata a un’ipotetica “intelligenza naturale” che coinvolge più di una specie e di un genere, la costruzione – in reciproca sintonia col mondo – dell’orizzonte stesso di un’esistenza. Ciò accade nell’esperienza animale. Lo studio critico della vita animale è un rompicapo colossale che, non casualmente, così come una psicoterapia, richiede ogni possibile partecipazione di sé: sensoriale, emotiva, immaginativa, intellettualmente vigile e critica.

La continua reinterpretazione e ricostruzione di un orizzonte condiviso e prevedibile per un senso comune s’impone tra gli umani come punto terminale e ineludibile per la loro stessa sopravvivenza, come individui e come gruppi. È il tema della perenne migrazione e del contatto tra culture e dei modi in cui s’incontrano e si mescolano e poi divengono una cosa sola trasformata nei modi di relazione, nei valori, nella quotidiana convivenza. È ancora da comprendere quali siano gli ingredienti fondamentali che agiscono in questi processi e tuttavia il susseguirsi di “contenitori” teorici – non privi di implicazioni, condizionamenti e conseguenze sociali e politiche – mostra quanto sia ancora instabile quest’area e come il succedersi di parole chiave possa aprire o chiudere, facilitare od ostacolare l’integrazione di culture.

In questo panorama si muove anche il lavoro clinico della psicoterapia, dove il tema della sopravvivenza è subordinato alla capacità di allargare l’esperienza di coscienza e di consapevolezza e dove però coscienza e consapevolezza non sono soltanto i principali interlocutori del dialogo ma anche i principali ostacoli a un bisogno di comprensione e trasformazione. Inevitabile constatare, anche qui, i limiti dell’io e dei suoi orizzonti e dei suoi pregiudizi, il ricorso difensivo a categorie stabili e prevedibili, l’angoscia del cambiamento , l’inutile esultanza nel prendere atto di ciò che è già successo e la tristezza se accade qualcosa di non previsto. L’apprensione relazionale dell’esperienza sospende i confini spazio-temporali dell’accadere e apre un’osservazione e un’azione di complicazione infinita.

 

contatto simbolico e assenza. – Ed è anche sull’implicazione di infinitezza che si gioca la riapertura di ogni significazione e lo svelamento di ogni concretismo, dove si trapassa, come nella felice espressione di Carlo Sini, da un nulla che ha senso a un nulla che ha senso.

Di come un’apprensione relazionale del mondo sospenda, fino ad annullarla, la datità della percezione immediata di un contatto finito, ne dà conferma l’elemento fondativo dell’assenza.

È così che ogni contatto – dissolvendosi l’illusoria concretezza del fenomeno – si mostra come impossibilitato a risolversi in una completezza conclusa e si scopre come immagine, traccia, impronta, memoria – ma anche segno e parola significante.

In questo senso, la meditazione del contatto permette allo stesso tempo la percezione della mancanza di un limite nell’oggetto e l’apertura della possibilità di infiniti percorsi di senso.

Ne danno qui testimonianza coincidente il contributo di ripensamento dell’immagine poetica, religiosa e letteraria e il convergere creativo – e non solo concettuale – del pensiero matematico sulla necessità dello zero.

Allo stesso modo e con analoga intensità, si racconta come il lavoro clinico dipenda dalla reciproca capacità di tollerare l’angoscia della perdita di certezza del contatto per riuscire ad accettare la consapevolezza della distanza necessaria nel fare di una cosa nota il segno di una cosa ignota. Poiché solo così i pensieri si rendono pensabili e, nuovamente, solo così, nell’accettazione dell’assenza, si riapre il possibile implicato – e occultato – in un’esperienza di malattia.

 

quale corpo per il contatto. – Avviciniamo ora la corporeità e il suo vissuto.

Ebbene, il vissuto corporeo, aperto nella sua relazionalità, esibisce la sua natura processuale e virtuale nella interfaccia dei suoi componenti: inter facies, dove facies può avere il significato di “faccia”, “aspetto”, “apparenza”, declinando progressivamente dalla materialità all’immaterialità.

Abbiamo qui un vero e proprio laboratorio, un campo d’osservazione dove il non visibile si rende evidente attraverso il contatto con lo schermo digitale e dove, finalmente – sia pure sperimentalmente – la tradizionale differenza tra “oggetto” ed “evento” si eclissa e torna trasparente nell’espressione di un “corpo virtuale”.

«In ambiente virtuale ciò che è percepito dall’utente dello schermo come cosa è in realtà un evento, l’attualizzazione provvisoria di un virtuale, esistente solo, nella sua attualità, come funzione di relazione interattiva». Come qui si sostiene, nel contributo di Roberto Diodato, il corpo virtuale, pur non essendo riducibile a una rappresentazione, non esiste come corpo se non nell’interattività, esso è una interazione, un oggetto-evento: un’azione (relazione di interattività) che è un corpo (corpo virtuale) in quanto possiede le caratteristiche che siamo soliti attribuire ai corpi.

Tutto ciò, ovviamente, abolisce la distinzione ontologica classica tra “interno” ed “esterno” cosicché l’individualità del soggetto, la sua singolarità, annega in una dimensione collettiva dove si confonde non solo con i propri simili ma col suo stesso ambiente: uomo e mondo sono una stessa unità originaria. questa è quella che Jung denominò come la psicologia dell’uomo arcaico, dove il consenso collettivo – non un consenso critico ma un consenso tout court – domina la definizione del “reale”. Di fatto, non c’è qui un vero e proprio soggetto agente prima della sua azione, ciò che qualifica un soggetto è la sua capacità di condizionare conferendo senso a quanto lo circonda: soggetto è ciò che ha un mana, ovvero un’efficacia.

Così come è mana il tentativo di re-integrazione qui narrata – determinata e rigorosamente disciplinata nel percorso del Tao Te Ching – di una parte del proprio corpo, la mano, che, passando inevitabilmente attraverso la con-fusione di soggetto e oggetto,

della parte e del tutto, deve spogliarsi della particolarità dell’impegno per realizzarsi come esperienza olistica del proprio corpo nel mondo. Come nella massima di Lao-tzu «Il corpo dell’uomo è l’immagine di un paese» che si rivela finalmente non essere solo un’analogia, ma il punto di partenza di una visione interiore e di una pratica psico-somatica.

Il corpo, con Merleau-Ponty, si ritrova attraverso l’esclusione simmetrica dei due termini dell’opposizione: non è soggetto, non è oggetto, ma la mediazione del soggetto e dell’oggetto. È a partire da questo contatto che si ri-costituisce il soggetto.

 

Rimane fuori da questo volume il termine più culturale di “confine”, che pure avrebbe avuto una sua dignità di presenza. Tutto ciò che “sappiamo” si regge infatti su un incessante lavorio di confinazione, di partizione, di ordinamento e di regolamentazione. Ma sappiamo ora che il fondamento fattuale di questa serializzazione ci sfugge tanto quanto la “realtà” che ci muoverebbe a produrlo: possiamo soltanto dire – ma non è poco – che se smettessimo di svolgere queste funzioni crolleremmo in un istante.

Ed è anche vero che la nostra conoscenza, a cominciare da quella poca che abbiamo di noi stessi, riposa tutta proprio sull’ipostatizzazione dei “particolari” che l’attività di confinazione ci restituisce: il nostro io e la nostra persona, l’individualità e la singolarità, gli oggetti, le culture, la/le storie ecc., cosicché, alla fine, volenti o non volenti, la nostra è complessivamente e in ogni tempo e latitudine una cultura della separazione. Quando va bene ciò porta a un accordo, ma nel resto dei casi soltanto a conflitti: non combattiamo mai per questioni di contatto ma solo per questioni di confini.

Perciò, in estrema sintesi, il pensiero della separazione è incapace di concepire un “contatto”: lavora su contenuti coscienti e non inconsci, su mappe e non su territori, su modelli e non su ciò che questi pretenderebbero rappresentare. In questo suo andamento tautologico, il pensiero della separazione rimane tuttavia sempre, inevitabilmente, incompiuto sul piano della sua fondazione: di qui la sua necessità che, purtroppo, è inevitabilmente anche nostra, di considerare meramente ipotetico un qualche tipo di “contatto”.

 

Ringraziamo non formalmente, ma con affetto e gratitudine, gli Autori che ci hanno accompagnato e reso possibile questa edizione. La loro particolare presenza non è stata affatto casuale e ora, a lavoro concluso, speriamo che la compagnia, il contatto che abbiamo costruito, sia almeno parziale compenso per l’attenzione e il tempo che ci hanno dedicato.

Anna Gianni, Roberto Manciocchi, Amedeo Ruberto

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